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“L’ARTE È FORMA DI VITA DI CHI PROPRIAMENTE NON VIVE”







MALATTIA


“Un uomo sbalestrato nella vita da chi sa quale pianeta [...] che cammina incerto tra gli uomini come se procedesse tra quei cocci aguzzi di bottiglia che coronano il suo implacabile muro” : così Mario Praz, con stupita vicinanza e, forse, ammirata pietà, descrive Montale nel suo rapporto con gli altri e col mondo
L’opera di Montale è voce di un uomo che si mostra come “di un solo blocco”[1] , ed in cui non si debba far pendere la “bilancia” a favore dell’arte o dell’umanità dell’autore. Lontano, come ogni vero artista, dall’affettazione e dall’insincerità, nella sua poesia Montale esprime, ascolta, medita, affronta e sublima - senza dunque cadere nel patetico - la propria inquietudine, i propri dubbi, la propria sofferenza ed il proprio dolore d’uomo, dando così voce al “male di vivere”[2] non solo suo ma, potenzialmente, d’ognuno. Solo potenzialmente, però, poiché non tutti sentono la vita come problema, e ancor meno come problema tragico, vivendo invece sicuri, sereni, agli altri e ”a se stessi - parafrasando il celebre verso di Non chiederci la parola – amici”. Non tutti sentono lo iato, la scissione, la frattura drammatica - che già Schiller ed Holderlin come Leopardi avevano espresso - tra l’uomo e la Natura, da cui ci si ritrova estranei, stranieri, in cui si è, pur nel continuo movimento e palpitare di ogni cosa intorno a sé, fissamente soli. Questo violento senso d’inadeguatezza, di incapacità ed inettitudine di fronte alla vita, questa vertigine di fronte all’abisso dell’insensatezza, dell’inspiegabile distanza d’un mondo in cui pure noi viviamo, che può scuotere con un “terrore d’ubriaco”[3] chi si accorge, in un’agghiacciante epifania nichilistica, del nulla su cui poggia tutto l’immenso edificio della realtà, questo profondo anelito ad un’armonia impossibile è la spinta e l’anima non solo della poesia montaliana, ma anche di gran parte della lirica e dell’arte - come si è accennato sopra - dell’Ottocento. Fu in questo secolo cruciale, infatti, che si comprese lucidamente l’irriducibile diversità tra gli Antichi ed i Moderni, per cui, stando alla visione dei grandi citati poc’anzi, la felice e salda certezza che univa i primi alla natura è ormai irrimediabilmente perduta per i secondi, la cui poesia - e quindi la cui vita - non può più avere quella freschezza e quell’ingenuità, appunto, che fanno la bellezza e la forza degli Antichi, per essere invece costretta a sorgere e crescere sul duro e doloroso terreno della consapevolezza che preclude ogni felice e santa illusione, o comunque una relazione serena e fiduciosa tra sé e il mondo.
È questo senso d’estraneità alla vita, con la conseguente incapacità di unirsi al suo fluire, che si può chiamare la “malattia” della modernità, tema centrale del secolo, affrontato, tra gli altri, da Svevo col suo malcerto e zoppicante Zeno. Infatti “la poesia di Montale si impianta su due condizioni tipiche della lirica borghese moderna: l’essere forma di vita di chi propriamente non vive e il nascere da un senso di ‘totale disarmonia col mondo”’[4]. È proprio questa complessità moderna[5] del rapporto con la vita a far nascere la lieve malinconia che accarezza il nulla di Gozzano, il focoso panismo vibrante di vita di D’Annunzio.
Ma pur con questi grandi precedenti, lo stesso tema viene affrontato dalla poesia montaliana in maniera nuova e personale, ben lontana dal luminoso lirismo di questi titani romantici, come pure dalla gozzaniana cantabilità crepuscolare e dall’impeto vitalistico di D’Annunzio: già lo si sente dal tono. Aspro, secco, petroso ed arido, arso dal “pallido e assorto”[6] meriggio sabbioso e abbacinato come dalla salsedine incrudita, già - e soprattutto - negli “Ossi di seppia” Montale dice, con le sue scarnificate “sillabe […] storte come un ramo”[7], la difficoltà di vivere in un “mondo senza canto”[8], dominato da una deterministica e gelidamente leopardiana Indifferenza. È la fitta gabbia della necessità, così ferrea e così duramente cieca, dove “forse tutto è fisso, tutto è scritto / e non vedremo sorgere per via / la libertà, il miracolo, / il fatto che non era necessario!”[9]; in essa, tutta la ricchezza, il palpitare, il “travaglio” d’ogni vita individuale si vedono soffocati come da una plumbea cappa di vanità e insensatezza, spenti dall’arsura del Meriggio - dall’“arido Vero”, che col suo calore, diversamente dall’immagine tradizionale, non nutre né scalda più nulla, ma brucia e dissecca “la foglia riarsa”[10], “il rivo strozzato che gorgoglia”9, immagini note e chiare del male di vivere. Pure, in questa implacabile canicola, nella “gloria del disteso mezzogiorno”[11], vivono sempre una speranza, un’attesa e una ricerca, quelle del “miracolo”[12] - tema centrale in tutto Montale - un’umile rivelazione che col suo barlume di libertà, umanità e, soprattutto ne “La bufera”, di divinità, fecondi e illumini la vita isterilita, ricca sì d’eventi ed esperienze, ma come svuotata dall’insensatezza del Tutto, “cielo pieno / di smorte luci”[13].
È un miracolo che può avvenire “forse un mattino andando”, o cercando “una maglia rotta nella rete”[14], ma si tratta di possibilità difficilmente avverabili, così come difficile è che il poeta riesca a vedere la vera essenza delle cose. E proprio tale inquietudine, quella di non poter conoscere la realtà, accompagnerà Montale per tutta la vita: tale è la principale sofferenza dell’uomo moderno, causata dal crollo - cui certo contribuirono i terribili avvenimenti del XX secolo - di ogni tipo di certezza, morale come conoscitiva, crollo che lascia un vuoto interiore impossibile da colmare, se non, almeno in parte, con la speranza. In Montale - come si vedrà poi - essa viene rappresentata manifestandosi in donne-angelo, come Clizia, il cui nome - quello d’una ninfa amata da Apollo - già evoca la solare luminosità dell’“Altro”[15], di cui lei è messaggera. Il loro scopo, similmente alla Beatrice dantesca, è in certo modo salvifico, dischiudendo al poeta una dimensione altrimenti ardua a raggiungersi, accendendo così, in lui, amore e speranza non solo in lei, ma anche e soprattutto nella realtà che esse testimoniano.
Ma, di questo, tutti s’accorgono? Tutti si sentono come distaccati e lucidamente estranei al mare della vita, incapaci di vivere, seppur tra gli altri, come gli altri? Già all’inizio s’era detto di no, ed infatti un ancor giovane Montale ci ha lasciato lo splendido ritratto d’una creatura, d’una giovane pienamente e felicemente immersa nei flutti dell’esistenza: Esterina. La sua è una delle figure in cui il contrasto tra salute e malattia, tra comunione ed inettitudine rispetto alla vita si mostra più chiaro e vivo, espresso dalle persone stesse dei suoi tanto diversi protagonisti, appartenenti quasi a due mondi diversi - ma non certo isolati l’uno dall’altro -, ed è proprio dal loro incontro che nasce una delle liriche più aeree, cantabili e danzanti di Montale, “Falsetto”.
Una serena spensieratezza anima tutta la rievocazione d’Esterina, “equorea creatura”[16] dall’animo lieto e sicuro, nella cui visione e nel cui ascolto - come non udire il canto del suo slancio, dell’infantile riso del suo entusiasmo? - il poeta indugia e rimira, beandosi nella pur breve dimenticanza del suo essere “l’agave che s’abbarbica al crepaccio”[17], che vive la sua “immobilità come un tormento”16. Nulla di più sconosciuto, invece, all’inafferrabile e gioiosa fanciulla, che con la fiduciosa levità della sua sicurezza vola oltre “la fumea che il vento / lacera o addensa, violento”15, per mostrarsi ancora più risplendente di prima: “Poi dal fiotto di cenere uscirai / adusta più che mai, / proteso a un’avventura più lontana / l’intento viso che assembra / l’arciera Diana”15.
I versi fluiscono l’uno dopo l’altro nell’ammirata, ma lucidissima, descrizione di questa donna, la cui rosea naturalezza la custodisce da ogni turbamento sulla realtà in cui lei, così armoniosamente, vive.
In lei (la poesia è dedicata alla giovane Esterina Rossi, sportiva e conoscente del poeta) non esiste alcuna frattura tra io e Natura, non v’è alcun presentimento che, come il “debole sistro al vento / d’una persa cicala”[18], “il nostro mondo / si regge appena”17: in lei corre una certezza di sé e della vita che le fa apparire l’esistenza quasi come una florida distesa sempre aperta alla sua gioconda caccia - certo non casuale, infatti, il richiamo a Diana -, come un magnifico bosco in cui, per quanto lo si esplori, non si verrà mai a perdersi. Esterina è libera e lieta di guidare i propri anni con la sua letizia, e la sua vita, all’opposto di quella del malato, “mezzo non fine”[19], pare volta invece tutta alla realizzazione della propria felicità; ogni ostacolo, ogni possibile fonte di inquietudine esistenziale - i “venti”[20] delle “andate primavere”, “la dubbia dimane”, “il gorgo che stride” - viene superata senza averne avuto il minimo sentore, nella più spensierata inconsapevolezza. Questa, infatti, è “la virtù del sogno”[21] cui tanto anelava il malinconico e malato anche lui Gozzano - la cui pattinatrice d’“Invernale” , secondo Sanguineti, ha influenzato l’Esterina montaliana -, virtù in grado di permettere la completa e fresca comunione dell’uomo col mondo, qui e altrove - si pensi a “Mediterraneo” - simboleggiata dall’elemento marino. È nell’acqua, infatti, che si celebra la fluida unità del Tutto, al di là d’ogni distinzione, preso nella sua totalità; è in essa che la vita ribolle in tutta la sua panica pienezza, in cui l’identità tra uomo e Natura è completa; è essa l’armonia perduta. Di tutto ciò la giovane non s’avvede nemmeno, non conoscendo alcuna distanza né differenza - similmente agli animali e, in meglio, ai bambini - tra sé ed il mondo, cui lei appartiene interamente, con tutta la sua incantevole salute. Questa, così, fa d’Esterina la più chiara antitesi al “male di vivere” dell’artista e, in generale, di chi ha conosciuto la vera natura della realtà, con la sua agghiacciante, incomprensibile vanità. Verso la sua ignoranza, dunque, non v’è alcuno scherno, né accondiscendente pietà, né tantomeno una volontà rivelatrice, volta ad illuminare quella sorta di caverna platonica in cui lei, con gli altri sani, vive tranquilla: col Sole della Verità che acceca col suo gelo, perché sradicare questa florida e prospera fanciulla in fiore? Non si tratta ancora, infatti, di donna angelica ed emissaria del Bene, che come Clizia sconta il male per tutti, né di guida quotidiana e fedele quale Mosca, ma di una giovane ammirata per la sua spigliata immediatezza - simile appunto a quella dell’Albertine proustiana - nei confronti dell’esistenza; e pure se lei non è certo esente da vizi e capricci del tutto umani, questo viene riscattato da un così lieto abbandono al petto del mare - quindi della vita. “L’acqua è la forza che ti tempra / nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi: / noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo [...] che la salsedine non intacca / ma torna al lito più pura”19.
Immersa nel cuore ribollente dell’esistenza, in Esterina non s’incrostano tutte le sue dure asprezze, visibili in ogni “ciottolo ròso [...] / impietrato soffrire senza nome”[22], in ogni sofferenza individuale, il cui lamento di scarti della “fiumara del vivere” è anche “condanna” per il poeta, costretto a sentirli dalla sua malattia: ma al contrario nella fluida mobilità marina lei trova la sua essenza, conoscendosi in essa, ed uscendone ancor più “pura” di come n’era entrata, intatta da qualsivoglia amarezza e  capace di ignorare o dimenticare i dubbi ed i tormenti della vita - similmente al mare che sbatte sulle sponde le “inutili macerie” del suo “abisso”21 - gettandosi nel cui grembo lei non vede alcuna “divina Indifferenza”[23], ma forse il proprio volto giovane e ridente.
Guardiamola, allora, dopo aver “diroccato”, con la fanciullesca noncuranza d’un “crollar di spalle”, i “fortilizi” del suo “domani oscuro”, incedere come una dea sul “ponticello” da cui le appare “il gorgo che stride”[24]: come già accennato sopra, ne nasce non un angoscioso “rivo strozzato”22 ma una candida incisione del suo lieto profilo “contro uno sfondo di perla”23. E allora, ecco la risposta finale d’Esterina alla vita ed ai suoi problemi, ai suoi drammi, al suo male: “esiti a sommo del tremulo asse, / poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti tra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra”23, ed alla semplicità del suo sorriso, che dissolve ogni aridità ed ogni secca arsura col suo attimo di luminosa e sana ingenuità, il malato può solo dire, dalla sua aspra e incolmabile lontananza, bloccato sulla riva bruciata del suo dolore, con lapidario distico: “Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra”23.

SPERANZA


“Dovevi uccidere in me il poeta, UCCIDILO e salva l’anima dell’uomo che ti sta pregando. L’anima è la parte migliore di me e la mia poesia è ancora in vita e non ha bisogno di eterne addizioni! Se sono un poeta di terzo livello nessuno può fare di me un genio. Io devo respirare e scoprire in te il respiro di Dio, l’opera della Divinità”[25]. Con questa confessione accorata, Montale, negli ultimi suoi giorni con lei, si rivolge alla giovane studiosa statunitense Irma Brandeis, supplicandola del miracolo di aprirlo, finalmente, alla vita nella sua stabile e luminosa pienezza; condizione tanto anelata da chi, come lui, ha sempre espresso il vuoto, la mancanza e l’assenza del mondo. Alla scheletrita aridità del reale e al suo deserto descritti dagli “Ossi”, Montale soprattutto ne “La bufera”, ora con voce più potente e fiduciosa, tenta appassionatamente di rispondere con la ricerca d’una sorgente, d’una fonte d’acqua viva con cui fecondare l’arsura:  ma ora si mira non più solo alla subitanea apparizione d’un varco, d’un “punto morto del mondo”[26], ma ci si apre ad un’intera dimensione altra e, in certo senso, superiore ad esso, che possa come nutrirlo e giustificarlo: una dimensione divina.
“Caro Eugenio, tu sei molto più vicino a Dio di quanto pensi”; questa dedica, donata al giovane poeta dal compagno d’armi Ettore Crovella - poi monsignore - negli anni della Grande Guerra, ci suggerisce una vicinanza di Montale al problema religioso poi confermatoci dalla testimonianza di sua nipote Bianca che, in un’intervista rilasciata ad “Avvenire”, parla di una “ricerca mai conclamata”[27], come d’una sorta di “fede senza dogmi”. Questa sarebbe dimostrata, ad esempio, dalla sua silenziosa ma assidua frequentazione di testi religiosi, come dalle lunghe conversazioni intrattenute con lei, soprattutto nella vecchiaia, riguardanti “il Bene e il Male” o “le eresie del II secolo d.C.”, in cui pareva proprio che lo zio volesse “avvicinarsi e comprendere questo Altro”. Al di là di una sua adesione a qualche credo particolare, comunque, tutto questo ci dice la tensione di Montale verso una vita vissuta nella verità, mai banalizzata ed accettata alla superficie, ed uno dei momenti in cui tale spinta metafisica verso gli spiragli dell’Oltre - se così possiamo definirlo - è più viva si ha proprio, come già accennato, ne “La bufera”, ed in particolare nella straordinaria figura di Clizia.
Se in Montale “la conflittualità tra negazione e primato della vita è la stessa che in Leopardi”[28], e “il tedio […] della vita esprime un desiderio enorme di vivere pienamente”[29] allora questa figura di donna-angelo, di emissaria del divino rappresenta uno dei tentativi più alti e decisi di opposizione al male, storico come esistenziale, del mondo, con la sua ferma custodia della luce, del bene e dell’Amore. Questo, soprattutto, va ormai ben oltre un semplice rapporto sentimentale - impossibilità che il poeta accetta come necessaria alla missione della giovane - facendosi in lei propriamente Carità, dedizione al prossimo a costo del proprio sacrificio, accomunandola dunque esplicitamente, con rimandi evidenti soprattutto in “Iride”, a Cristo. In Lui, infatti, v’è la fondamentale unione di umanità e divinità, rendendolo così punto di riferimento privilegiato per chi, come Clizia, salva l’uomo con la propria “opera” che, per quanto umana, “della Sua è una forma”. Di lei, in una lettera al critico Cambon, Montale stesso ci dice che è “certo, in origine, donna reale; ma […] ovunque ‘visiting angel’ […]. Piuma, luccichio dello specchio e altri segni [...] non sono che enigmatici annunzi dell’evento che sta per compiersi [...] la visitazione. E perché la visitatrice annunzia l’alba? […] Forse l’alba d’un possibile riscatto, che può essere tanto la pace quanto la liberazione metafisica […]. Il suo compito d’inconsapevole Cristofora non le consente altro trionfo che non sia l’insuccesso di quaggiù: lontananza, dolore [...], quel tanto di presenza che sia per chi lo riceve un memento [...]. Se angelo è, mantiene tutti gli attributi terrestri, non è ancora riuscita a disincarnarsi […].[30] Tuttavia è già ‘fuori’, mentre noi siamo ‘dentro’”. È nel buio e nel dolore, infatti, quando “spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale”[31] che ella potrà manifestarsi nella sua natura di salvatrice, rischiarando l’oscurità della guerra come, più essenzialmente, quella del mondo, con un’“alba che domani per tutti si riaffacci, bianca [...] / agli arsi greti del sud”[32]. La sua è una lotta non spettacolare, né clamorosa, ma continua e segnalata agli altri uomini anche da minime tracce, la piuma ed il luccichio come l’umile iride a lei affidata dal poeta in “Piccolo Testamento”, “testimonianza / d’una fede che fu combattuta / d’una speranza che bruciò più lenta d’un ceppo nel focolare”. Per quanto “Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni”, pure è questo umile oggetto che permetterà - non ad uno ma a tutti - di sentire, in lei, come “il tenue bagliore acceso quaggiù / non è quello d’un fiammifero”, quindi il valore e la resistenza d’un’umanità viva, calorosa e tenace. Questa infatti si esprime nell’“orgoglio” che “non era una fuga” come nell’“umiltà”, che “non era / vile”30, e dunque in un confronto veramente coraggioso e ricco di dignità con la vita, al cui male non ci si rassegna sconfitti, rispettandone però sempre il mistero e, in certo modo, la grandezza, senza patetici titanismi. Importante, poi, notare che “se un raggio di sole (di Dio?) ancora / può incarnarsi [...] / [...] se getti il tuo volto contro il mio”[33] - come si dice a Clizia - questo spiraglio di divinità si apre in una dimensione, e grazie ad una donna ancora terrestre e carnale, che seppur vivendo “fuori”, in certo modo oltre il nostro mondo, rende i suoi istanti, i suoi attimi ed i suoi gesti come fissati nella loro bontà e bellezza. Si riscatta, così, il gelo della Natura con la fiamma del Divino che si manifesta nell’Umano, lanciando moniti, avvertimenti ad ognuno, segnali di speranza, per non arrendersi alla “bufera”, al “fremere / dei tamburelli sulla fossa fuia”[34], all’“ombroso Lucifero” dalle “ali di bitume”30. Ecco, allora, che proprio la sensibilità del malato Montale permette una vicinanza ed un drammatico contatto col male del mondo, che portano poi ad una sua denuncia e risposta in Clizia; ma soprattutto la voce del poeta ora non è più volta all’ammirazione della salute come rapporto sereno e armonioso col mondo, parlando invece a nome di tutti, non più contrapposti in sani e malati, ma chiamati in causa in quanto uomini, tra cui “più nessuno è incolpevole”. È questo dunque il modo in cui Montale sente e vuole far sentire la negatività della vita cui non si può più rispondere ignorandola, ma affrontandola con una resistenza quotidiana in grado di preservare sempre l’onestà e la dignità umane.
Allora, il canto della salute come felice inconsapevolezza non può più sussistere dove, al contrario, è necessaria una presa di coscienza di cui il poeta può farsi portavoce, nella luce redentrice che risplende e nutre tutti, “la scintilla che dice / tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi”[35].

GUARIGIONE


Se si può parlare di guarigione in Montale, questa è l’accettazione della propria malattia, aggravata poi, recentemente, dalla mancanza di certezze dovuta alla Seconda Guerra Mondiale e al progresso, e da sempre influenzata dalle teorie di celebri autori quali Einstein e Nietzsche: il primo aveva rivoluzionato la Fisica, cioè la nostra idea dell’universo, con la sua Teoria della Relatività, il secondo con il suo nichilismo e il suo violento spirito critico, entrambi misero in luce i limiti della cultura esistente e distrussero i concetti fondamentali dell'Occidente – basti l’aforisma nietzschiano “Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità”.
Montale dunque, giunto ormai alla vecchiaia, accetta la sua malattia, che gli permette di osservare con lucida ironia ma senza cinismo la realtà e le sue storture, “all’insegna” d’uno “sguardo da fuori e da lontano, che trasforma il pathos dell’esclusione in privilegio”[36]. Infatti, “L’individuo che non riesce a vivere, a rigore neppure a esistere, proprio perciò è massimamente capace di vedere e registrare”[37]; ora, stemperatasi la tensione metafisica quasi eroica che animava Clizia/Iride si sentono un distacco ed una disillusione che, accompagnati talvolta da un fondo di amarezza, permettono una sorta di quotidiana e prosaica chiaroveggenza. In Satura Montale si fa mimetico e compie una svolta cambiando la propria visione del mondo poetico. La poesia montaliana deve la sua asprezza al rispecchiamento di una realtà in crisi, rappresentata dall’uomo stesso, famelico e avido di benessere, impegnato nel progresso. Con la cultura consumistica, come già accennato, il mondo ha perso molti dei valori che tradizionalmente avevano retto l’Occidente; quindi la realtà vissuta dall’ultimo Montale è ormai povera, frammentata ed accettata nella sua complessità, con poca fiducia in ogni possibile miglioramento della condizione umana. Nella sua poesia il gioco di specchi e riflessioni del reale, in cui si aggirano i “sedicenti vivi”, si propaga inesorabilmente: “Non so se Dio si sia reso conto / della grande macchina da lui costruita / un errore di calcolo dev’essere alla base / dell’universo […] / c’era qualcosa dapprincipio, poi / venne il tutto, vacuo e imprevedibile”[38].
Il poeta, testimone di un mondo irrimediabilmente decaduto e vinto dalla necessità di legarsi alle cose materiali, imita la realtà disorganica che osserva. È specialmente in questa raccolta che la critica del mondo contemporaneo e dei difetti dell'essere umano, accompagnata sempre dall'ironia, raggiunge il suo apice. Questa critica però, è per così dire “passiva”: Montale non ha alcun intento di modificare la realtà esistente, non ha nessuna fiducia nel futuro. Il suo pessimismo avvolge la totalità che lo circonda, che lo circonderà e che lo ha circondato, realtà che s’esprime anche nell’incapacità dell’individuo di trovare certezze e consolazioni nella storia. A differenza, infatti, di Livio e Machiavelli (ma non dissimilmente da Guicciardini) Montale la intende come “magistra”, ma “di niente che ci riguardi”[39]. In questo senso la storia non è considerata un possesso perenne, un insegnamento valido sempre per il futuro, né la storia è antidoto per risanare la crisi morale di un mondo travagliato dalla sua stessa grandezza. Essa piuttosto viene vista come una “rete a strascico” che, imprigionando indistintamente grandi quantità di pesci, ha comunque “qualche strappo e più di un pesce sfugge”; ma gli scampati, per di più ignorando “di essere fuori”, non paiono più felici degli altri che invece addirittura si credono anche “più liberi”38. L’autore ha infatti la piena consapevolezza, tra le altre cose, della mutazione profondissima causata dalla società dei consumi, dalla corsa verso il benessere e dai suoi processi massificatori. Egli riversa dunque la sua poesia nella rassegnazione, in questa lucida ironia, che pervade l’intera raccolta sotto svariati aspetti, a partire dallo stile: uno stile volutamente basso, prosastico, sentenzioso e talvolta comico, che rispecchia la realtà del mondo appunto decaduto descritto dal poeta.
Montale fu un uomo solo e dopo la morte di Drusilla Tanzi lo fu ancora di più. Drusilla viene soprannominata Mosca a causa della miopia accentuata che la costringeva ad indossare spesse lenti e, diversamente da Clizia e da Esterina, rappresenta un nuovo tipo di donna, musa e modello di vita. È lei infatti a condividere col marito quella vita che appare sempre più incomprensibile e irriducibile a salde convinzioni, dove il suo paradossale mistero traluce da tanti episodi di una affettuosa relazione coniugale, in cui lei, col suo “radar di pipistrello”[40],  accompagna fedelmente il poeta nel suo viaggio attraverso un mondo labirintico. Anche in questo nomignolo l’autore gioca con l’ironia - come si vede anche nel “fischio […] studiato per l’aldilà”[41] o nel “privato / Giudizio Universale”[42], quindi nella riduzione di aspettative metafisiche ed oltremondane alla semplice quotidianità -, espediente ch’egli usa per rispondere alla dolorosa realtà. Drusilla, infatti, pur essendo quasi cieca è la sua guida. Esempio lampante del ruolo di Mosca è la poesia n. 5 di Xenia II in cui Montale aiuta la moglie a scendere “almeno un milione di scale” e Drusilla lo aiuta a vedere le essenze, portandolo al di sopra delle “trappole” e degli “scorni” di chi “crede / che la realtà sia quella che si vede”. Questo sostegno reciproco, così, fu uno degli appigli che aiutò Montale a sopportare la malattia del vivere.
Quattro anni dopo la pubblicazione di Satura, nel 1975, Montale ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Nel suo discorso di ringraziamento contrappose dialetticamente la poesia al mondo contemporaneo. “È ancora possibile la poesia?”: ecco il titolo della sua orazione; ecco ciò che al poeta è rimasto, giunto quasi al termine della sua vita; ecco ciò che Montale trova come continuum, come immortale, come àncora di salvezza in un mare incerto, tumultuoso in cui le stesse onde odiano il loro fluire. “Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso?” ci chiede Montale con la sua solita ironia. La poesia è un φαρμακον, può guarire o avvelenare, e Montale sceglie di definire la poesia come “una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”. Questo perché l’espressione poetica del male di vivere non può che nascere da un lacerante e acuto sentirlo: “si scrive quando e perché si è malati”[43]. La poesia non è la bellezza che salva da questo dolore, e tutta la produzione artistica non dà risposte, né certezze contro le illusioni di essere privilegiati. Montale coglie la tracotanza, l’auto-divinizzazione dei moderni, che cercano e credono di sanare, col semplice benessere e progresso, gli interrogativi dell’uomo, che lo schiacciano fin dalla Creazione. “Essere vivi e basta / non è impresa da poco”[44].

PENSIERI CONCLUSIVI


Con la sua esperienza di poeta e uomo Montale ci mostra come la lucidità e la pazienza verso la realtà non siano affatto una sterile fuga da essa e dal suo vorticare, ma al contrario “un rispettabile prendere le distanze”[45] necessario alla comprensione o comunque almeno ad un’indagine sincera e profonda di essa; è evidente quindi l’attualità di posizioni, cresciute in un mondo sempre più confuso, non sicure e certe delle proprie verità, ma pur sempre ferme nel difendere, col diritto di dire “no” e di sottrarsi, la dignità del proprio anelito al vero, che per quanto non si mostri non smette però di essere cercato senza compromessi. La grande coerenza, poi, della sua vita umana come poetica ci dice certamente quanta parte in essa abbia la presenza d’un vissuto autentico da cui trarre i frutti della propria arte. Inoltre la resilienza e resistenza continue e assidue verso l’aridità del vero – e quindi in generale verso il dolore sentito universalmente – ci offrono un solido ed appassionato esempio di come, pur nel buio della bufera, si possa ugualmente illuminarlo e riscaldarlo con gesti anche di umile ma vera umanità. E allora la speranza che, come l’anguilla, brilla “intatta in mezzo ai figli / dell’uomo […] / puoi tu / non crederla sorella?”[46].


BIBLIOGRAFIA


Barberi Squarotti G., Amoretti G., Balbis G., Boggione V., Contesti letterari vol 6, Atlas 2015
Gioanola E., Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive  Jaca Book 2011
Montale E., Ossi di seppia , Oscar Mondadori 2017
Montale E., Tutte le poesie, I Meridiani Mondadori 1991



[1] Montale, “Discorso per il centenario della nascita di Italo Svevo”, 1961.
[2] Montale, “Spesso il male di vivere ho incontrato” in Ossi di seppia.
[3] Montale, “Forse un mattino andando” in Ossi di seppia.
[4] Pier Vincenzo Mengaldo, “L’Opera in versi di Montale”
[5] Complessità moderna anticipata già nei tragici canti della Saffo leopardiana e nell’Iperione di Holderlin, crudamente scissi dal seno dell’amata Natura.
[6] Montale, “Meriggiare pallido e assorto” in Ossi di seppia
[7] Montale, “Non chiederci la parola” in Ossi di seppia
[8] Rodolfo Macchioni Jodi, “Montale e la crisi dell’uomo moderno”
[9] Montale, “Crisalide” in Ossi di seppia
[10] Montale, “Spesso il male di vivere ho incontrato” in Ossi di seppia
[11] Montale, omonima in Ossi di seppia
[12] Montale, “Forse un mattino andando” in Ossi di seppia
[13] Montale,  “L’agave sullo scoglio” in Ossi di seppia
[14] Montale, “In limine” in Ossi di seppia
[15] Montale, “Primavera hitleriana” in La bufera e altro
[16] Montale, “Falsetto” in Ossi di seppia
[17] Montale, “L’agave sullo scoglio” in Ossi di seppia
[18] Montale, “Debole sistro al vento” in Ossi di seppia
[19] Montale, “Mediterraneo” in Ossi di seppia
[20] Montale, “Falsetto” in Ossi di seppia
[21] Guido Gozzano, “La via del rifugio”
[22] Montale, “Mediterraneo” in Ossi di seppia
[23] Montale, “Spesso il male di vivere ho incontrato” in Ossi di seppia
[24] Montale, “Falsetto” in Ossi di seppia
[25] Montale, Lettera ad Irma Brandeis
[26] Montale, “I limoni” in Ossi di seppia
[27] Intevista di Paola Bergamini
[28] G. Lonardi, “Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale”
[29] Marianna Montale sul fratello
[30] Montale, lettera a Cambon
[31] Montale, “Piccolo testamento” in La bufera e altro
[32] Montale, “La primavera hitleriana” in La bufera e altro
[33] Montale, “Se un raggio di sole (di Dio?)” in La bufera e altro
[34] Montale, “La bufera” in La bufera e altro
[35] Montale, “L’anguilla” in La bufera e altro
[36] Elio Gioanola, “Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive”
[37] P.V. Mengaldo, “La tradizione del Novecento”
[38] Montale, senza titolo in Poesie sparse
[39] Montale, “La storia” in Satura
[40] Montale, “Non ho mai capito se io fossi”
[41] Montale, “Xenia 4” in Satura
[42] Montale, “Xenia 11” in Satura
[43] Cesare Garboli, “Penna e Montale”
[44] Montale, “Il trionfo della spazzatura”
[45] Montale, “Lettera a Malvolio”
[46] Montale, “L’anguilla” in La bufera e altro

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