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SALLUSTIO

"Non sunt composita verba mea: parvi id facio. Ipsa se virtus satis ostendit; illis artificio opus est ut turpia facta oratione tegant. Neque litteras grecas didici: parum placebat eas discere, quippe quae ad virturem doctoribus nihil profuerant". 

Sallustio, in questo suo Mario del Bellum Iughurtinum, mostra al meglio un atteggiamento, un tono o, per i malevoli ("Priscorum verborum Catonis ineruditissimus fur" lo chiamò un liberto di Pompeo, certo Leneo che Svetonio nel De Grammaticis dice offeso nel suo patrono) una posa in cui è difficile credere che egli stesso non si riconoscesse o, almeno, ammirasse con superbo rimpianto. Stile, quello del Mario sallustiano, che è poi quasi sintesi e concentrato di quello del suo autore, che è brusco eppure elevato, fiero ma mai tumido, aristocratico e mai molle. 
Chi parla -e scrive- così siamo tentati di vederlo col mento alzato, lo sguardo cupo che non sapremmo se dire più torvo o triste, e la bocca leggermente contratta in una smorfia di stanco orgoglio: "scriptor seriae ac severae orationis" lo dice giustamente Varrone, e di "timbro maschio e severo" parla Paratore, dacché proprio la severità è l'elemento che in lui risalta maggiormente e in modo più memorabile. Non a caso Norden, nel suo grandioso "La prosa d'arte antica", enuclea in Tucidide, Tacito e, appunto, Sallustio la 'triade dei σεμνοι', "scrittori per i quali il pensiero, che mediante la variazione delle espressioni viene sempre un po' sfumato, importa più delle belle parole". L'articolo di Lorenzo Monaco  SALLUSTIO, MARIO e CATONE MAGGIORE continua sul IL CARLETTO



Il passaggio dalla registrazione cronachistica, parallela ai fatti, alla storiografia come ricostruzione complessiva di un periodo più o meno lungo di storia, si verifica negli ultimi decenni del III secolo a. C. Un forte impulso a questa svolta venne da due fattori. Il primo di ordine storico, politico e psicologico, fu la guerra annibalica; il secondo fu il coinvolgimento culturale sempre più forte con il mondo greco, che si intensificò quantitativamente e qualitativamente tra il finire del IV e il III secolo a. C.
Quinto Fabio Pittore, autore degli Annales o Rerum Gestarum Libri, è generalmente riconosciuto come il primo storiografo latino, anche se le sue opere vennero composte in greco. A lui viene attribuita l’introduzione nella tradizione storiografica del criterio Ab Urbe Condita. Dopo di lui, in meno di un secolo, la storiografia romana rivive le diverse esperienze greche, e ne riproduce in breve tempo l’intera e ben più lunga parabola.
Tra il finire del II secolo a. C. e gli inizi del I due autori introducono significative novità per lo sviluppo del pensiero storico dal punto di vista metodologico, del periodo trattato e dell’utilizzo delle fonti: L. Celio Antipatro e Sempronio Asellione.
Celio Antipatro fu il primo a introdurre il genere monografico, il Belli Punici Alterius Historiae, è infatti il primo testo di questo genere in lingua latina. Quest’opera si differenzia dalle precedenti anche per l’aspetto metodologico: Celio Antiprato, ispirandosi ai principi di indagine storica utilizzati del greco Polibio, ricerca un’oggettività che lo porta a tener conto di fonti meno favorevoli alla causa romana.
Sempronio Asellione nelle sue Historiae, oppone il concetto di res gestae a quello di annales, intendendo un concetto di storiografia che non dovesse necessariamente analizzare tutta la storia (ab Urbe Condita) e che utilizzasse una prospettiva metodologica. “Non è sufficiente dire cosa è accaduto. Occorre argomentare (demonstrare) anche quo consilio quoque ratione gesta essent: dunque un’indagine sulle cause, le intenzioni, le finalità delle singole azioni.[1]”. Non basta, inoltre, fornire le date di inizio e fine di un conflitto, dire il nome di chi le ha combattute, dei generali che hanno trionfato o descrivere i singoli eventi bellici, questo viene sentito come “fabulas pueri narrare (raccontare favole ai bambini) scrivere storia significa dire quid senatur decretaverit aut quae lex rogatiove lata sit ….quibus consiliis ea gesta sint (che cosa abbia decretato il senato, quale legge o proposta sia stata fatta, in base a quali decisioni o considerazioni siano stata compiute queste azioni)”[2].
Il passaggio dall’annalistica alla monografia, la selezione di un periodo storico e di un argomento ben definito, l’attenzione ad una metodologia di indagine critica appaiono, sul piano formale, come la premessa alla produzione monografica sallustiana.

Biografia

Gaio Sallustio Crispo, nasce ad Amiternum, in Sabina, alle calende di Ottobre dell’anno 86 a. C. da una famiglia facoltosa, che però non aveva mai dato magistrati allo Stato. A Roma compì probabilmente i suoi studi e, ben presto, si orientò alla carriera politica. Era un homo novus e forse per questo si schierò con il partito dei populares guidato da Caio Giulio Cesare, nipote ed erede della politica mariana. Nel 55 a. C. fu questore e nel 52 tribuno della plebe. È l’anno in cui l’assassinio di Clodio per mano di Milone provoca tumulti, incendi e provvedimenti straordinari. Sallustio si schiera apertamente contro Milone, che al processo è difeso da Cicerone. Nel 50 a.C., mentre si trova in Siria, è espulso dal senato per immoralità, si dice per essere stato colto in fragranza di adulterio con la moglie di Milone ma si tratta probabilmente di una vendetta del partito oligarchico, che non gli ha perdonato la presa di posizione nell’affare Clodio. Durante la guerra civile combatté dalla parte di Cesare e grazie all’appoggio di questi la sua carriera politica riprese brillantemente. Nel 46 a. C. era già pretore in Africa e successivamente venne nominato governatore della provincia Africa Nova, nata dalla dissoluzione del regno di Numidia. Sallustio si mostrò avido e non seppe governare bene la sua provincia: venne accusato di concussione[3] e per evitare una nuova espulsione dal Senato si ritirò a vita privata. Da questo momento in poi si dedicò alla storiografia, dedicandosi all’otium nei famosi Horti Sallustiani, come racconta lui stesso nella prefazione del De Catilinae coniurationis: “Sed, a studioque me ambitio mala detinuerat, eodem regressus statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis, quod mihi a spe, metu, partibus rei publica animus liber erat quo incepto[4].”
Morì tra il 35 e il 34 a. C.



Le opere.

Sallustio concepisce la storiografia come uno strumento capace di promuovere un’indagine conoscitiva sulla crisi che ha colpito lo stato e la società romana, quindi intende rintracciare e studiare i fatti che hanno cooperato al processo di sfaldamento della res publica per poterne trarre insegnamento. Al centro dell’indagine storica c’è la crisi stessa a cui lo storico assiste come testimone: la questione morale, la decadenza dei costumi in cui la città è coinvolta suscita il fantasma di una prossima rovina dell’autorità dell’Imperium in quanto tale. Inizia a profilarsi l’idea di una fine, l’ombra del disfacimento del mito della Roma Aeterna pervade come un oscuro presentimento le pagine delle opere sallustiane. La grandiosità delle conquiste che hanno reso grande Roma, le straordinarie energie morali spese dai romani delle generazioni antiche si fondavano sui valori della concordia maxima, minima avaritia, di audacia in guerra, di aequitas in pace che erano state propri delle generazioni antiche, almeno fino al termine delle guerre puniche.
È questa la soglia storica che Sallustio indica come inizio del decadimento morale: con la caduta di Cartagine e il venir meno del metus hostilis, il timore dei nemici esterni, l’avaritia e l’ambitio dilagano a Roma. La corruzione infetta i giovani igitur ex divitiis iuventutem luxuria atque avaritia cum superbia invasere[5]. È in questo quadro di grandezza e insieme di corruzione interna, intriso di moralismo, che Sallustio ambienta le storie di Catilina e di Giugurta, essi diventano il punto di raccordo di vicende in cui corruzione e ferocia, eroismi inaspettati e conflitti politici si mescolano fra loro.

De Catilinae coniuratione
L’opera tratta della congiura di Lucio Sergio Catilina, che il console Cicerone aveva represso nel 63 a.C. Dopo un proemio in cui si affrontano gli argomenti morali e filosofici Sallustio redige un celebre ritratto di Catilina. La personalità di questo aristocratico è dipinta a tinte fosche ma vivaci, sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani. È approfittando di questa decadenza che Catilina raduna attorno a sé personaggi che, per i motivi più diversi, auspicano un cambiamento di regime. Catilina è descritto come un nemico deliberato della legge, dell'ordine e della moralità, ma non privo di tratti nobili anzi, tutto ciò di cui un uomo romano aveva bisogno per avere successo lui lo possedeva. È una figura complessa e contorta, che possiede caratteristiche antitetiche: è coraggioso e malvagio, intelligente, profondamente affascinante: un monstrum, tanto che leggendo la descrizione della battaglia finale di Pistoia, si ha l’impressione che al valore ed al carisma di questi non fosse insensibile neppure lo stesso Sallustio. Accanto a Catilina ci sono altri personaggi che vengono descritti e studiati con eguale interesse: i congiurati, Cicerone, ma soprattutto Cesare e Catone il Giovane. Il confronto tra questi ultimi due personaggi non va slegato da un lato al tentativo di superare la polemica legata al suicidio di Catone e dall’altro alla volontà di liberare il personaggio di Cesare da ogni legame con il partito dei populares. Sallustio sembra tentare una sorta di ideale conciliazione tra i due personaggi, il ritratto di Cesare si concentra sulla sua liberalitas, munificentia e misericordia, sull’infaticabile energia che sottende il suo desiderio di gloria. Quello di Catone con la sua integritas, severitas, innocentia si radica nelle virtù tradizionali, entrambi modelli estremamente positivi, in qualche modo complementari, per la salute della res publica romana.

Bellum Iugurthinum.
Il Bellum Iugurthinum narra la guerra combattuta dai romani (111-105 a.C.) contro Giugurta, re di Numidia. Il pretesto bellico serviva però a mascherare un'altra guerra: una guerra interna, quella del partito antinobiliare che rivendicava, contro la nobiltà corrotta, il merito della politica di espansione e della difesa del prestigio di Roma. Per alcuni aspetti il quadro storico che delinea Sallustio è deformato: per rappresentare la nobiltà come un unico blocco corrotto, trascura di parlare di quella parte dell’aristocrazia favorevole ad un impegno attivo nella guerra.
Sallustio vorrebbe dimostrare come il degrado morale e l'incapacità siano state le cause della lentezza con cui venne condotta la guerra e la causa degli iniziali insuccessi. In questo quadro le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate dai discorsi di Memmio e di Caio Mario, che esprime le aspirazioni di una élite italica ad una maggiore partecipazione al potere.
Il giudizio su Mario è ambivalente. Se da un lato vengono apprezzate la figura dell’uomo frugale ed energico, generoso con i soldati e pronto a condividerne le fatiche, la forza d’animo che lo ha portato ad opporsi e a superare l’arroganza degli aristocratici, dall’altro non viene meno la consapevolezza delle sue responsabilità nelle guerre civili. Per quanto riguarda la figura di Giugurta possiamo affermare che, come già era accaduto con Catilina, Sallustio non nasconda la sua ammirazione per l’energia indomabile del protagonista. Essa è sintomo certo di virtus ma di una virtus fuorviata. A differenza di Catilina la figura del re barbaro viene rappresentata in evoluzione: la sua natura non è corrotta sin dall’inizio, lo diviene progressivamente e in conseguenza del suo contatto con i romani. Tuttavia il suo personaggio non ha scusanti né attenuanti. Sallustio non si sforza di indagare le sue ragioni né si pone dal suo punto di vista. Una volta che si è corrotto, Giugurta è solo un tiranno perfido e privo di scrupoli.
Anche in quest'opera è presente un forte taglio moralistico ed essenzialmente politico. Sallustio, capace da una parte di forti sintesi storiche, che tralasciano elementi essenziali all'analisi storica dall'altra rivela grande vigore polemico nel denunciare l'incompetenza della nobilitas.

Le Historiae.
Dopo le due monografie Sallustio si cimentò anche in un'opera di più ampia portata, le Historiae che rimasero incompiute a causa della morte dell’autore. Esse dovevano narrare, secondo una scansione di tipo annalistico, la storia dal 78 a.C. anno della morte di Silla, ma non sappiamo fino a che punto volesse arrivare Sallustio. Dell'opera restano solo frammenti, comunque significativi, che consentono, almeno in parte, di ricostruirne la struttura complessiva.
È certo che Sallustio avesse composto almeno cinque libri e che, dopo il prologo iniziale, seguiva un'ampia retrospezione sul mezzo secolo precedente di storia. Al centro del libro I campeggiava la figura di Silla; nel II dominavano le guerre di Pompeo in Spagna e in Macedonia, nel III la guerra mitridatica, la fine della guerra contro Sertorio e la rivolta di Spartaco; il libro IV abbracciava i fatti del periodo 72-70 a.C., con la conclusione della guerra servile; il V racconta l'esito della guerra di Lucullo e la guerra di Pompeo contro i pirati. L’opera, che influenzò molto la storiografia successiva, è improntata ad un marcato pessimismo di un Sallustio che assiste impotente all'agonia della Repubblica romana. Dopo la morte di Cesare, non erano più pensabili per Sallustio attese o progetti di riscatto.

Lo Stile.

Sallustio condizionò in larga parte la storiografia latina successiva. Prendendo le mosse da Catone il Giovane e da Tucidide elaborò uno stile fondato sull'inconcinnitas. Contrariamente allo stile simmetrico, ampio e regolare, ricercato da Cicerone, quello di Sallustio è un discorso irregolare, pieno di asimmetrie, antitesi e variazioni di costrutto. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo e il vigoroso controllo che lo frena, produce un effetto di gravitas, un’immagine di mediata essenzialità di pensiero. Seneca descriveva con queste parole lo stile sallustiano: Amputatae sententiae et verba ante exspectatum cadentia et obscura brevitas[6].
Alla gravitas espressiva contribuisce la patina arcaicizzante, che non deriva solamente dall’uso di termini desueti, ma anche da un periodare essenziale, ricco di allitterazioni e asindeti. Si tratta dunque di uno stile arcaizzante ma nello stesso tempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonformista, in contrasto con gli standard del linguaggio letterario dell'epoca.



[1] Domenico Musti, Il pensiero storico romano, in Lo Spazio Letterario di Roma Antica, 1998, pag. 192-193.
[2] Domenico Musti, op. cit, ibidem.
[3] Occorre ricordare che la spoliazione delle province non era un fatto insolito per quei tempi ed anzi costituiva una prassi della vita politica romana. Pertanto si potrebbe supporre che l’operato di Sallustio, qualora fosse stato accertato non avrebbe costituito un motivo di scandalo tanto grave da determinare la fine della carriera politica dell’autore.
[4] “Tornai invece a quel progetto e a quella passione da cui una cattiva ambizione mi aveva distolto e decisi di narrare le imprese del popolo romano per episodi, come mi parevano degne di memoria; tanto più che avevo ormai l'animo libero da speranze, timori, faziosità”.
[5] Sallustio, Bell. Cat. 12,9: Quindi per le ricchezze, la gioventù fu presa dal gusto per il lusso, dall’avidità, dall’arroganza.
[6] Pensieri troncati e brusche interruzioni e una concisione che tocca l'oscurità

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