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BARDI, SUEBI E LONGOBARDI


I BARDI 


Secondo la storia il toponimo «Bardi» deriverebbe dall'appellativo che contraddistingueva la nobiltà longobarda - i cosiddetti Arimanni - un gruppo dei quali si stabilì qui attorno al 600 d.C. Il territorio fu abitato sin dal Paleolitico (ne sono prova i ritrovamenti archeologici sul Monte Lama) e in seguito dai Liguri; in età romana faceva parte del municipium di Veleia, ed era attraversato dall'asse viario che portava a Luni e a Roma. Questa strada, ripresa dai longobardi, fu utilizzata, per un tratto, anche dai monaci di Bobbio per recarsi a Roma. Scendendo dal passo di Boccolo de' Tassi attraversava Bardi, risaliva la valle del torrente Noveglia e scendeva a Borgo Val di Taro per raggiungere Pontremoli. 

L'abitato è dominato dall'imponente castello costruito in posizione sopraelevata su uno sperone di diaspro rosso. La prima testimonianza scritta della presenza di un castello è data da una pergamena datata 869. Nell'agosto 898 un bardigiano, Andrea figlio di Dagiverto vende al Vescovo di Piacenza Everardo metà della "Rocha" di Bardi. Nel gennaio del 1000 il Vescovo di Piacenza Sigifredo si trasferisce a Bardi, essendo il feudo diventato patrimonio ereditario dei Vescovi di Piacenza. Nella prima metà del XIII secolo il Vescovo di Piacenza cedette il castello e le terre circostanti ad un gruppo di nobili locali conosciuti come "Conti di Bardi". Nel 1251 In seguito ad una ribellione i Pallavicino - Signori di Piacenza - espugnarono e distrussero il castello. 

Il 19 marzo 1257 il feudo fu acquisito da Umbertino Landi dei Landi di Piacenza - Conti ghibellini - che rimasero tra alterne vicende Signori di Bardi per i successivi quattro secoli. Umbertino Landi riedificò e fortificò il castello facendone un baluardo pressoché inespugnabile. Nella lotta tra Papato e Impero (Guelfi e Ghibellini) Bardi rimase sempre legata all'impero. Nel 1269 i Guelfi assediarono il castello che si arrese dopo mesi per penuria di viveri. Il castello passò alla città di Piacenza fino all'ottobre 1307, quando Umbertino II Landi ottenne dal'Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo il castello di Bardi, Borgo Val di Taro e Compiano. Il 29 novembre 1321, in località "La giostra" nei pressi dell'oratorio delle Grazie fu combattuta una violenta battaglia tra le milizie Guelfe guidate da Giacomo Cavalcabò, Capo di Cremona, e le truppe Ghibelline comandate da Galeazzo I Visconti. I guelfi ebbero la peggio e lo stesso Cavalcabò fu ucciso e venne sepolto nel vicino Oratorio. Nel 1381 Gian Galeazzo Visconti riconobbe la signoria dei Landi che ottennero nel 1415 una completa autonomia. Il castello, progettato inizialmente come presidio militare, venne successivamente ampliato e modificato per adattarsi alla funzione di capitale di un piccolo stato libero esteso a buona parte dell'alta Val Ceno e dell'alta Val Taro (corrispondente al territorio dei comuni di Albareto, Bardi, Bedonia, Borgo Val di Taro, Compiano, Tornolo e Varsi). Nel 1429 Filippo Maria Visconti conquistò il castello, successivamente affidato al condottiero di ventura Niccolò Piccinino che lo tenne dal 1438 al 1448. Nel 1448 ritornarono i Landi. Nel 1551 l'imperatore Carlo V eresse il feudo a marchesato e i Landi ottennero il diritto di battere moneta con una loro Zecca. Agostino Landi fu nominato marchese di Bardi e principe di Borgotaro. Ad Agostino successe Manfredo, morto improvvisamente in Spagna prima delle nozze con Giovanna di Aragona, a cui si deve l'impianto attuale del castello. Dopo il marchese Claudio nel 1589 il castello passò a Don Federico, che istituì nel 1616 per diploma dell'Imperatore Mattia un collegio di notai in Bardi con la facoltà di concedere la Laurea di abilitazione e l'anello. Il collegio venne abolito con le Leggi Napoleoniche nel 1805. A Don Federico e a sua Figlia Polissena il castello deve una risistemazione complessiva del cortile, la costruzione del portico dell'Oratorio, la grande Sala dell'Armeria, la raccolta dei quadri e la Biblioteca. A Polissena successe il figlio Andrea III Doria-Landi, che nel 1682 cedette Bardi a Ranuccio II Farnese, duca di Parma. La storia di Bardi seguì da quel momento la storia del Ducato di Parma e dal 1861 quella del Regno d'Italia e della Repubblica Italiana. Da sempre parte del territorio della Provincia di Piacenza, passò alla provincia di Parma nel 1923. 

Dalla fine dell'Ottocento a tutto il 900 la storia di Bardi è caratterizzata dal fenomeno dell'emigrazione verso la Gran Bretagna, la Francia, la Svizzera, il Belgio e gli Stati Uniti. Durante la seconda guerra mondiale e dopo l'Armistizio Bardi e le montagne circostanti furono teatro di scontri tra le truppe tedesche e le brigate partigiane della Val Ceno e della Val Taro. Il 17 luglio 1944 all'alba Bardi fu bombardata da 12 bombardieri "Stukas" che provocarono danni ingenti, mentre truppe tedesche in ritirata da Bedonia e Borgo Val di Taro eseguirono numerosi rastrellamenti. 


I SUEBI 


Duemila anni fa il Mar Baltico era conosciuto dai Romani come Suebicum mare. In parte a causa della sua scarsa conoscenza con i diversi popoli germanici che interagirono con Roma, lo storico Tacito si è riferito a tutti i Germani dell'Elba con il nome di Suebi, probabilmente semplificando notevolmente una realtà fatta di tribù non sempre strettamente affini. Gli Svevi migrarono a sud e a ovest, soggiornando per un periodo nell'odierna regione tedesca della Renania, dove il loro nome sopravvive nell'area nota come Svevia. Gli Svevi sotto Ariovisto furono invitati in Gallia dagli Edui, ma subito divennero i loro dominatori e alla fine furono sconfitti da Giulio Cesare nel 58 a.C. Strettamente collegati agli Alamanni e spesso agendo in accordo con loro, la maggior parte dei Suebi stette sulla riva destra del Reno fino agli inizi del V secolo, quando il grosso della tribù si unì ai Vandali e agli Alani per fare breccia nella frontiera romana a Magonza e da lì invadere la Gallia (una parte dei Suebi, chiamati Suebi del nord, sono menzionati nel 569 sotto il re franco Siegbert I, nell'attuale Sassonia-Anhalt). E gli Svevi, collegati a Sassoni e Longobardi, sono menzionati anche in Italia per l'anno 573. Mentre i Vandali e gli Alani si scontravano con i Franchi alleati di Roma per il dominio sulla Gallia, i Suebi di re Ermerico si diressero a sud, attraversando i Pirenei e il paese dei Baschi, penetrarono in Spagna, che era fuori dal controllo imperiale sin dal tempo della ribellione di Geronzio e Massimo nel 409, devastando per due anni le province occidentali e meridionali.
Dopo aver adottato un atteggiamento più pacifico, i conquistatori che erano un piccolo numero, non più di 30.000, ottennero da Roma lo status di foederaii, in cambio del giuramento di fedeltà all'imperatore Onorio (410).
Nel 411, l'imperatore assegnò loro delle terre, tramite sorteggio; agli Svevi e ai Vandali Asdingi toccò la Gallaecia, regione nord-occidentale della penisola iberica, ai Vandali Silingi la Betica ed agli Alani, la popolazione più numerosa, la Lusitania e la Cartaginiensis (con capitale Cartagena).
In contemporanea con la provincia autonoma della Britannia, il reame degli Svevi in Galizia fu il primo di quei sub-regni romani che si formarono dalla disintegrazione dell'Impero romano d'Occidente e fu il primo ad avere una propria zecca. 



Regno svevo di Galizia 



Penisola iberica, 530-570 



Gli Svevi, sotto il comando di Rechila, associato al trono dal padre Emerico, cominciarono ad avanzare nella provincia Betica (l'attuale Andalusia), e nel 439 conquistarono Mérida, sul confine meridionale della Lusitania e nel 441 presero Siviglia e, approfittando delle difficoltà dei Romani, avanzarono e conquistarono oltre alla Betica la provincia di Cartagena ed iniziarono anche a fare delle incursioni nella provincia Tarragonese.
Lo status di foederati con Roma fu confermato ma nel contempo fu stipulata un'alleanza con una tribù di banditi e mercenari, detti Bagaudi, per poter procedere nelle conquiste e alla morte di Rechila, nel 448, la maggior parte della penisola iberica era nelle mani dei Suebi ed i Romani erano relegati nell'angolo nord-orientale della penisola. Nello stesso periodo, il regno Svevo fu molto aggressivo nei confronti dei nativi e del Cattolicesimo, in quanto la popolazione era pagana, e favorì il clero di credo ariano, e quello seguace del priscillianesimo contro i vescovi locali, cattolici. Durante il regno di Rechiaro fu stabilito un buon rapporto coi Goti, che già da qualche anno si erano stabiliti nella provincia Tarragonese, anche tramite il matrimonio con una figlia del re dei Visigoti, Teodorico I e, su pressione di quest'ultimo, nel 449, i Suebi, rinunciando al paganesimo aderirono alla religione ariana.
Quindi il regno dei Suebi fu il primo regno cristiano a battere moneta propria. Dai Visigoti, gli Svevi ottennero anche l'aiuto militare per proseguire la conquista di quella parte della penisola iberica, che era stata dei Vandali. Poi, con sporadiche incursioni, devastarono la Vasconia e con una politica contro l'impero romano, riuscirono, col benestare del nuovo re dei Visigoti, Torismondo (tra il 451 ed il 452) ad occupare parte della valle dell'Ebro e parte della provincia Tarragonese, da cui dovettero ritirarsi, in base ad un trattato stipulato con i Romani.Nel 456, alleatisi con i Vasconi e con i Vandali di Genserico, che attaccavano le coste calabresi e siciliane, ruppero il trattato con Roma ed invasero i territori della provincia Tarraconense; ma il nuovo re dei Goti, Teodorico II, non solo non li appoggiò, ma li contrastò non vedendo di buon occhio l'espansione del regno svevo; e nella battaglia sul fiume Órbigo gli Svevi furono sconfitti ed il loro re, Rechiaro, fu fatto prigioniero e, nonostante fosse cognato di Teodorico II, fu giustiziato. 




Guerra civile sueba (456-463) 


I Visigoti, allora, approfittando che vi erano diversi pretendenti alla corona, invasero il regno svevo, intervenendo nella guerra di successione. Nel 460 l'esercito visigoto guidato dal comes Sunierico e dal generale romano Nepoziano sconfisse gli Svevi presso Lucus Augusti.Nel 460, Remismondo, uno dei pretendenti alla corona sveva, si alleò col re dei Visigoti, Teodorico II, che l'aiutò nella guerra civile, in cambio della promessa di riconversione degli Svevi all'arianesimo.
La guerra civile si protrasse per circa altri quattro anni e si concluse solo dopo la morte dei due concorrenti di Remismondo, che avvenne, per entrambi nel 463.Nel 463 il regno degli Svevi fu sotto un'unica corona e, nel 464, Remismondo, venne ufficialmente riconosciuto come unico re degli Svevi di Gallaecia, anche dai Visigoti e, nel 465, sposò, la figlia di Teodorico II che lo convertì alla religione ariana, e in questa occasione, ci fu la conversione in massa degli Svevi, che in maggior parte erano ancora pagani. 


Seconda fase di espansione 

In quello stesso anno con l'aiuto dei Visigoti si impadronirono di Coimbra e subito dopo di Lisbona e Anona. 






Nel 466, occuparono Egitania, e molta parte della Lusitania; e, nel 467, saccheggiarono ed annessero al regno, Conimbriga. Il nuovo re dei Visigoti, Eurico, che, nel 466, aveva assassinato il fratello Teodorico II, cambiò politica nei confronti degli Svevi, che da amichevole divenne contraria, portando la guerra (che fu terribile secondo il cronista Idazio, vescovo di Chaves in Galizia) in Lusitania e spinse gli Svevi nei vecchi confini.Alla morte di Remismondo, nel 469, iniziò un periodo oscuro, in cui le notizie sono molto scarse.
La cronaca di Idazio si interrompe nell'anno 468 e praticamente sino al 550, anno in cui si fa riferimento al re Carriarico, la storia degli Svevi è sconosciuta. 



Periodo oscuro (469-550) 


Conversione al Cattolicesimo 



Penisola iberica nel 560. In rosso il regno dei Visigoti. In verde il regno degli Svevi. In viola la provincia bizantina di Spagna. In giallo le zone della penisola iberica ancora governate da Ispano-Romani.Al tempo di Carriarico il regno Svevo si trovava nuovamente in fase di espansione dei confini orientali e meridionali: 
al fiume Navia nelle Asturie 
ai fiumi Orbigo ed Esla nel León 
al fiume Duero nella Chartaginensis (attuale Castiglia) 
dove i fiumi Côa ed Esla si gettano nel Tago, verso l'Estremadura 
ai fiumi Abrantes, Lejria e Parades in Lusitania. 

Durante il suo regno e, molto probabilmente, anche sotto il regno di Teodemaro, il suo successore, in seguito all'influenza di san Martino, vescovo di Braga, dal 561, il popolo svevo si convertì al cattolicesimo, ponendo così fine alla tensioni seguite alla conversione all'arianesimo di Remismondo.
Pelagio I, papa dal 556 al 561, convocò, il 1º maggio del 561, il Primo concilio di Braga, che si protrasse sino al 563. 

Il concilio, con l'approvazione di Giovanni III, papa dal 561 al 574 decise che: 
le stelle non determinano la sorte degli esseri umani 
il diavolo non ha, di per se stesso, alcun potere di produrre cataclismi 
è vietato il digiuno nel giorno di Natale 
il suicidio, salvo due eccezioni, è qualificato come un crimine 
tutto ciò che esiste al mondo, incluso il corpo umano, è buono, in quanto proveniente da Dio (questo soprattutto fu menzionato per combattere il manicheismo dei seguaci di Mani e il priscillianeso dei seguaci di Priscilliano e gnosticismo); 
fu infine stilato un elenco dei principali diavoli 

Guerra contro i Visigoti 

Nel 569, il regno svevo fu attaccato da Leovigildo, re ariano dei Visigoti, che con grande rapidità si impadronì di Palencia, Zamora e León, ma non di Astorga che gli oppose una tenace resistenza. 

Tra il 571 ed il 572, approfittando che i Visigoti erano in guerra contro i Bizantini nel sud della penisola iberica, gli Svevi espansero i confini del regno occupando le zone di Plasencia, Coria, Las Hurdes e Batuecas. 

Nel 572, il re, Miro, convocò il Secondo concilio di Braga, a cui parteciparono dodici vescovi e deliberò sull'etica di comportamento e sui doveri dei vescovi e del clero di Gallaecia.
Nello stesso anno attaccò gli ariani che ancora si trovavano nella parte nord orientale del suo regno, nelle Asturie e nella Cantabria. 

Questo attacco diede il preteso al re dei Visigoti, Leovigildo, che era ariano, di attaccare il regno svevo.
Nel 573, Leovigildo, dopo aver conquistato la provincia di Braganza e la valle del fiume Sabor avanzò nella valle del fiume Duero, fondando la città di Villa Gothorum (ora Toro).
Si rivolse, quindi, contro la Cantabria, dove conquistò Astorga, il cui controllo oltre al controllo di Toro gli permise, nel 575 di invadere la Galizia.
Miro, dopo aver perso Ourense e tutto il sud est, con le città di Porto e Braga sotto assedio, si sottomise e chiese la pace (578), ottenendo una breve tregua. 

Fine del regno svevo 


Nel 581, Ermenegildo, figlio del re dei Visigoti, Leovigildo e governatore della provincia gota della Betica, convertitosi al cattolicesimo, si era ribellato al padre, accettando la corona offertagli dai ribelli sivigliani.
Miro, quando, nel 583, seppe che i sostenitori cattolici di Ermenegildo erano asserragliati a Siviglia, assediata dai Visigoti ariani, guidò gli Svevi (cattolici) in loro soccorso; ma, prima di poter giungere a Siviglia gli Svevi furono affrontati da un contingente di Visigoti che li respinse, facendoli rientrare nel loro regno. 

La sottomissione ai Visigoti fu confermata dal successore di Miro, re Eborico, che per questo motivo fu deposto e assassinato, nel 584, da Andeca, ultimo sovrano svevo. 

Il re dei Visigoti, Leovigildo, prese a pretesto la deposizione e l'assassinio di Eborico per poter intervenire, ancora una volta, nel regno svevo;
invase immediatamente il territorio svevo e, secondo quanto afferma il cronista Isidoro, (con la massima rapidità) li sconfisse con due sole battaglie, a Portucale ed a Bracara.
Battuto e fatto prigioniero Andeca, nel 585, fu deposto, costretto a sottoporsi alla tonsura, e rinchiuso in un monastero a Pax Julia. 

Il regno svevo fu assoggettato ed incorporato nel regno visigoto, divenendone una provincia; si fece avanti, allora, un pretendente al trono: Malarico, discendente del re Miro, che radunato un esercito poco consistente fu facilmente battuto dai Visigoti, nel 586, fu fatto prigioniero e, molto probabilmente, chiuso in un monastero. 

Dopo quest'ultimo tentativo di ribellione, gli Svevi accettarono di essere governati da un dux (duca) visigoto, pur mantenendo le leggi, gli usi e le altre caratteristiche proprie del loro fiero ed antico regno. 



I LONGOBARDI 


Longobardi (o Langobardi), popolazione germanica che appare nelle fonti scritte nel 5° sec., quando si stanziò nel Meclemburgo (a E dell’attuale Amburgo).

Le origini



Secondo l’antico mito longobardo delle origini, i L., provenienti dalla Scandinavia, sarebbero partiti verso il continente europeo a causa di una grave carestia. La scienza storica delle migrazioni, tuttavia, tende ormai a vedere il problema delle origini delle gentes germaniche in una luce diversa; queste ultime si sarebbero formate solo durante le migrazioni e i gruppi che, secondo le varie tradizioni, avrebbero iniziato il cammino migrante, sarebbero stati solo un elemento delle posteriori gentes di età storica. In questo senso i L. come stirpe germanica definitivamente formata non sono più antichi dei loro stanziamenti in area tedesca. Del resto lo stesso mito chiama gli antenati scandinavi dei L. Winnili (forse «cani vittoriosi»), il che lascia supporre che dal punto di vista culturale ed etnico fossero diversi dai L. posteriori. La trasformazione che portò i Winnili a divenire L. (i «lungabarba») sul continente si collega all’adozione del culto magico-guerriero di Wotan, il dio dalla lunga barba, e degli Asi, e a un’accentuazione del carattere guerriero della stirpe. 



La discesa in Italia 

L. riappaiono nelle fonti durante la guerra dei Romani contro i Marcomanni allorché, alleati di questi ultimi, tentarono una prima penetrazione verso il Danubio. Sconfitti, rimasero per altri due secoli sulla Bassa Elba. Nel 488 giunsero nel Rugiland (Bassa Austria); guidati dal re Vacone, passarono il Danubio (527-28) penetrando in Ungheria; all’epoca il loro regno comprendeva anche la Boemia. Nel 547-48 si spinsero nella Pannonia meridionale e nel Norico mediterraneo, regioni-chiave per il collegamento tra Italia e Balcani; la loro nuova qualità di federati trascinò i L. nella grande politica mediterranea di Bisanzio: prima si scontrarono con i Gepidi, poi furono coinvolti nella guerra greco-gotica come alleati dei Bizantini; lo scoppio aperto delle ostilità contro i Gepidi vide in seguito i L. vittoriosi ma a prezzo di una pericolosa alleanza con gli Avari, che divennero la forza dominante in area balcanica. Per lasciare loro spazio, i L. furono costretti a dirigersi più a ovest e, guidati dal re Alboino, nel 569 penetrarono in Italia; al momento dell’invasione i L. mantennero quasi intatta la loro antica cultura tribale, l’unico elemento di chiara influenza romana fu la loro conversione al cristianesimo ariano.



Il Regno longobardo 

L’occupazione dell’Italia da parte dei L. non fu rapida né totale; Alboino occupò parte del Veneto e puntò su Milano e Pavia; il fatto militarmente più rilevante fu il lunghissimo assedio di Pavia, l’antica capitale del regno gotico, che si arrese dopo tre anni. L’assassinio di Alboino (certo per manovre bizantine), poco dopo la presa di Pavia (572), gettò i L. nel caos, bloccando lo sviluppo di razionali piani di conquista. Assassinato dopo due anni il nuovo re Clefi, una parte dei L. cadde sotto l’influenza bizantina; d’altro canto la struttura anarchica dei L. permise a molti duchi e alle loro fare non solo di rimanere indipendenti, ma anche di continuare a estendere l’area da essi controllata. Durante la cosiddetta anarchia ducale (574-84), il paese fu percorso da bande di guerrieri che saccheggiavano e devastavano; tramontò così quello che restava in piedi dell’apparato statale e dell’assetto sociale e culturale tardo-antico, e con esso la classe dei senatori-proprietari di terre. Nel 584, di fronte alla concreta minaccia di un’invasione franca i L. si sottomisero al re Autari ma il caos politico cominciò a diradarsi solo con il suo successore, Agilulfo (590-616).
In questo periodo fu stipulata una prima pace con l’impero, che riconobbe il regno longobardo nella sua configurazione territoriale: esso comprendeva l’Italia del nord (eccetto la fascia costiera veneta e la Liguria), la Tuscia, il cuore dell’Umbria e delle Marche e vaste regioni del sud. Già in quest’epoca fu chiaro però che l’autorità del re longobardo era debole a sud degli Appennini: i duchi di Spoleto e di Benevento rappresentavano dei poteri quasi autonomi. Nel resto del regno i duchi, stretti collaboratori del re, erano posti a capo di civitates, città con il loro territorio. In tale contesto emerge la figura del gastaldo, in origine semplice amministratore dei beni fondiari (le curtes) del re; dal 7° sec. gli furono affidate anche intere civitates da governare al posto del duca. Il re risiedeva a Pavia, dove aveva un palatium, sede della corte e di una rudimentale amministrazione centrale, il cui fondamento economico era rappresentato dalla vastissima rete di curtes di proprietà regia. Sotto Agilulfo e sua moglie Teodolinda aumentò la collaborazione con i residui elementi colti della popolazione romana e si stabilì un rapporto di parziale convivenza con il papato, allora rappresentato da Gregorio Magno. 


La massima potenza 

Una nuova fase di aperto contrasto con i Bizantini si ebbe con il re Rotari (636-52), che conquistò la Liguria e prese Oderzo, cacciando i Bizantini in laguna e vincendoli a Scultenna. Egli inoltre mise per iscritto le leggi del suo popolo (➔ Rotari), il cui valore rimase inizialmente limitato, con tutta probabilità, ai soli Longobardi. Nella seconda metà del 7° sec. (fig.) la dinastia cosiddetta dei re bavaresi (discendenti da Teodolinda e da suo fratello Gundoaldo, che avevano nelle vene sangue bavarese), si distinse per una lenta ma sempre più netta apertura verso il cristianesimo nella sua forma romana: nel 653 il re Ariperto I abbandonò l’arianesimo e, nel 698, con il sinodo di Pavia cadde l’ultima barriera, rappresentata dallo scisma dei Tre Capitoli, nei confronti della popolazione romanica d’Italia. Nell’8° sec., abbandonata la loro lingua per adottare il latino d’Italia, i L., cattolici, si fusero con la popolazione locale. Contemporaneamente, il termine «longobardo», sinonimo di guerriero, esercitale, arimanno, viene impiegato per indicare l’uomo libero che porta le armi nel quadro dell’esercito longobardo. Il momento di massima potenza politica del regno si ebbe con Liutprando (712-44) che, sfruttando i gravi contrasti che indebolivano l’Italia bizantina, lacerata dalla controversia dell’iconoclastia, riuscì a estendere i possessi longobardi in Emilia, a prendere per breve tempo Ravenna, ad arrivare fino alle porte di Roma e a sottomettere i due ducati di Spoleto e Benevento. 


La fine del Regno 

L’elemento decisivo che bloccò Liutprando, impedendogli di spazzare via in modo definitivo i Bizantini, fu rappresentato dal papato, il cui prestigio nei confronti di un popolo di neo-convertiti era immenso. La Chiesa romana, con Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria, si presentò allora sulla scena come decisa continuatrice della respublica Romanorum, nel momento in cui la forza politico-militare dei Bizantini (sottoposti, in Oriente, alla tempesta dell’espansione araba) appariva in netto declino. Quando, sotto Astolfo, nel 750 la stessa Ravenna cadde in mano longobarda, papa Stefano II, di fronte alle pesanti richieste da parte del re longobardo di un tributo (che avrebbe sancito la supremazia longobarda su Roma), si rivolse ai Franchi. Si ebbero così le due discese del re Pipino in Italia: i Franchi sconfissero i L. costringendoli a cedere le recenti conquiste, ma non li sottomisero. Ciò avvenne, in modo definitivo, con il figlio di Pipino, Carlomagno, nel 774, dopo che l’ultimo re longobardo Desiderio aveva rinnovato le aggressioni contro i territori romani. Carlo assunse la corona longobarda, cercando un accordo con l’aristocrazia. Nel 776 una violenta rivolta dei L. del Friuli costrinse Carlo a destituire una serie di duchi longobardi sostituendoli con conti franchi. Tuttavia, l’aristocrazia longobarda non cedette del tutto le leve del potere locale e, nonostante le novità introdotte dai conquistatori, la società longobardo-italica mantenne molti dei suoi caratteri precedenti all’invasione franca. L’eredità politica, sociale e giuridica del regno longobardo, proseguita esplicitamente nel sud nella Longobardia minore dai duchi di Benevento, continuò anche nel centro-nord nel ducato di Spoleto, andando a confluire nella più complessa realtà dei secoli centrali del Medioevo italiano. 

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