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Riepilogo sulla Canzone del Castra

{REVISIONE 2.3 21 aprile 2020 La clausura aguzza l'ingegno, evidentemente, e dopo essere riuscito a mettere (finalmente) le mani sul saggio integrale di G. Crocioni del 1922, ho completato la doverosa revisione di questo post. Ormai il testo online è completo, l'articolo scientifico alla base è ancora un po' indietro. Per quello è necessaria diversa acribia. Lo pubblicherò quando sarò sicuro di non aver scritto qualche frescaccia}


Non chiedetemi perché, ma è andata proprio così: basti dire che, come altri uomini che vanno in giro per il mondo, l'altro giorno, per caso, mi sono trovato lungo il corso di un fosso chiamato Le Rote che scorre alle pendici di Monte Vidon Corrado. In quel luogo decisamente "fuor del cammino" mi sono tornati in mente tre nomi che appaiono nella nota Canzone Marchigiana del Castra: Cencio Guidoni, Le Rote, il Clenchi. Più che abbastanza per rimettere le mani negli appunti di una quindicina di anni fa e verificare la fondatezza di una vecchia ipotesi.
Sono stato incuriosito da questo testo fin dalla prima lettura: mi sarebbe piaciuto sapere di più dei protagonisti, un poeta/cavaliere e un'umile ragazza fermana, e, soprattutto, mi sarebbe piaciuto individuare i luoghi che fanno da sfondo ai fatti raccontati in questa divertente poesia del XIII secolo.
Il contrasto è citato da Dante Alighieri nel capitolo XI del DVE come esempio di canzone in improperium del volgare della Marca di Ancona. Dante l’attribuisce a un certo Castra di Firenze (quidam Florentinus nomine Castra) del quale non sappiamo nulla noi e, probabilmente, non sapeva molto nemmeno Dante.
Della canzone, definita “recte et perfecte ligatam”, ossia metricamente perfetta, rimane il sorprendente incipit:



Dante parla di una canzone, una delle tante, composta a derisione di una parlata avvertita come rusticana e particolarmente sgradevole. L’uso del piuccheperfetto fa pensare che questa sia stata composta qualche anno prima del DVE, si pensa tra il 1260 e il 1280. Un intrigante mistero riguarda questo testo e ha attivato la curiosità di molti. 
L’unica copia manoscritta della canzone è conservata nel recto della carta 26 del Vat. Lat. 3793, il codice che ci tramanda ca. 1000 testi della poesia sicula e toscana. Le parole della canzone sono abbastanza diverse rispetto alla versione tramandata da Dante:


Una fermana iscoppai da Cascioli/cietto cietto s'agia in grand'aina



C'è un'altro particolare non di poco conto: il manoscritto reca, nello spazio dell'autore, il nome Messer Osmano. Da pochi anni chiunque può consultare on line questo prodigioso documento e farsi un'idea:



Il dibattito intorno al testo della canzone si è concentrato sui seguenti elementi:

1. Innanzitutto c'è il problema della resa diplomatica del testo; sebbene la canzone materialmente sia stata scritta dalla mano principale del MSS 3793 con un grafia molto leggibile, tuttavia  presenta alcuni punti oscuri e non minori problemi di interpretazione, date anche le relativamente scarse attestazioni del volgare marchigiano.
2. Se la divisione in strofe è evidente (l'amanuense le distingue con un capoverso ornato, inserisce un grafema decorativo alla fine della fronte, la maiuscola all'inizio della sirma e separa i versi con un punto alto), non altrettanto facile è l'attribuzione delle battute ai personaggi.
3. E' oggetto di dibattito anche l'area di provenienza del componimento, se si tratti dell'opera di uno scrittore toscano che imita l'idioma della Marca o sia un testo effettivamente marchigiano.
4. Legata al punto 3 è la definizione dei ruoli di Messer Osmano e di Castra.

La versione di riferimento della Canzone del Castra rimane ancora quella pubblicata nel 1960 da Gianfranco Contini in Poeti del Duecento; la canzone è inserita nella sezione V della POESIA POPOLARE E GIULLARESCA. I contributi successivi hanno avanzato diverse interpretazioni e correzioni, ma non mi sembra che si siano sedimentate.
Il dibattito si accende nel 1915, quando Amerindo Camilli, filologo e fonetista insigne di Servigliano, pubblicò la prima trascrizione interpretativa della Canzone del Castra, anticipando di poco Francesco Egidi e si mantiene intenso per circa dieci anni. Camilli torna diverse volte sul testo nel 1918, 1924, 1938, 1944 allontanandosi molto dalla sua prima versione, che era più vicina al testo successivamente reso "canonico" dallo studio di Contini. 
Camilli ed Egidi avevano diviso i dialoghi in modo differente, in particolare il primo aveva attribuito il verso 8 "se mi viva mai..." al cavaliere, l’altro a alla fanciulla. 
Nella sua prima pubblicazione Camilli aveva diviso i dialoghi in modo diverso, in particolare aveva attribuito il verso 8 "se mi viva mai..." alla fanciulla anziché al cavaliere.
L'architettura della canso viene in aiuto, perché, se è vero che le strofe di 10 versi appaiono abbastanza autoconclusive, tuttavia al loro interno la battute dei personaggi e gli interventi del narratore non corrispondono a fronte e sirma. Addirittura nel verso 34 hanno voce sia il narratore sia la fanciulla.
Lo studio di gran lunga più completo e, a mio parere convincente, è però quello di Giovanni Crocioni che fu pubblicato nel 1922. Crocioni, che contesta la popolarità del componimento, propone una struttura del componimento più regolare e assegna una strofa (o una fronte o un sirma) di dialogo a ogni personaggio. Né la prima ipotesi di Camilli né la seconda di Crocioni sono accolte in pieno nel libro di Contini, che pubblica una versione a metà strada tra le due.

Così Francesco Egidi aveva ripartito le battute tra il cavaliere (distinto nel suo ruolo di voce narrante e di personaggio) e la fanciulla:
  1. strofa  (introduzione narratore e cavaliere)  ABabABC   (fantilla) DCD
  2. strofa  (fantilla)  EFEFEF GHGH
  3. strofa  (narratore) ILI (fantilla)  LILMN (cavaliere) MN
  4. strofa  (cavaliere) OPOPOP (fantilla)  QRQR
  5. strofa (narratore) STSTSTUV  (fantilla) UV
Così aveva ripartito le battute Crocioni:
  1. strofa  (introduzione narratore e cavaliere)  ABabABCDCD
  2. strofa  (fantilla)  EFEFEF GHGH
  3. strofa  (narratore) ILI (fantilla)  LILMNMN 
  4. strofa  (cavaliere) OPOPOP (fantilla)  QRQR
  5. strofa  (narratore) STSTSTUV  (fantilla) UV

I passi di lettura più controversa sono concentrati all'inizio del testo:

v.1 iscoppai: Il significato del verbo iniziale è stato subito oggetto di dibattito. Iscoppare è stato tradotto già da Camilli con il moderno "incontrare", tuttavia il testo toscano di Dante getta ombre riguardo a un possibile significato osceno.
Significato osceno adombrato da Egidi, recuperato in parte da S. Baldoncini, ma  negato dai più, persino da me.

v. 8  se mi viva mai (Camilli 1915, Egidi 1916, Vitaletti, Crocioni, PD 1960, Baldoncini, ma il primo attribuisce la battuta alla ragazza) è una locuzione ottativa. Secondo Egidi 1916, che è la lezione che preferisco, Boni scarponi sarebbe una metonimia  con cui la fantilla appella ironicamente il suo ricco corteggiatore.
- se mi'invii v'ha mei: Boni Scarponi  (attribuito alla ragazza, Camilli 1938) significherebbe "Se mi invii avrai di più: i buoni scarponi". mai/mei significa "inoltre"

v. 9  So ch'aie ma mal fai che ci aba... (Camilli 1915, 1938) "so che sei ricco, ma fai male se credi di avermi"
- Soccio mal fa i che gabba.. (Bald.) "Mandriano, mal fa chi chi si prende gioco"
- Soca i'è, mal fa i che caba... (PD 1960) "c'è sotto una beffa, mal fa chi chi si prende gioco"
- Soca i'è, mal fa i che caba... (Crocioni)  legge allo stesso modo ma lascia ancora parlare l'uomo, con il risultato che la "fantilla di Cencio Guidoni" non sarebbe la fermana, ma diventerebbe una rivale, una possibile preda alternativa del poeta.

v. 11 Ka Donno meo (Bald. e altri) "che il mio padrone"
k'ad onto meo (Camilli 1915, PD 1960) - ch'ad aontamme me (Camilli 1938) "che mio malgrado"
- Cadonto meo (Crocioni) Nelle prime trascrizioni diplomatiche "Cadonto" era stato considerato considerato un nome proprio di persona, ma da Camilli 1915 quest'ipotesi è stata lasciata cadere. La ribadisce solo Crocioni che, pur non avendo reperito questo nome nelle carte fermane e fiastrensi ne ha trovati di simili e di altrettanto strani. Se Crocioni avesse ragione la "fantilla di Cencio Guidoni non sarebbe più la fermana, ma una sua rivale".

vv. 27-28 ché di me non puoi aver pur una cica /se non mi prendi a noscella. (Crocioni) Il manoscritto reca chedime nompuoi auere puruna cica /senonmiprendi anoscella e non so perché quella noscella abbia creato tanti dubbi. Mi sembra che per senso logico, per la tradizione delle pastorelle non possa che essere un derivato di nuptiae e che, nella sua blanda resistenza, la fermana abbia ribadito che prima di concedersi dovrebbe essere chiesta in moglie.

Altri due versi ostici in chiusura della terza strofa. I primi editori e Baldoncini attribuiscono la battuta al cavaliere, Crocioni e Contini alla ragazza.
vv. 29-30 E sciona! Non gire per la spica, sì ti veio arlucare la masciella! (Camilli 1915) "Ehi sciocca, non spigolare pretesti, vedo già come ti brilla la mascella"
Escionna! Non gire per la spica, sì ti veio arlucare la mascella! (Crocioni, PD 1960) "Sveglia! non spigolare pretesti, vedo già quanto ti brilla la mascella"

Altri dubbi riguardano il cibo e i recipienti portati dalla fanciulla (Ciotole, cucchiai, scodelle? minestra o polenta?), se la felice conclusione del corteggiamento avvenga subito o a fine giornata.

    La questione dell'attribuzione della canzone all'area toscana o a quella marchigiana è legata ai dubbi riguardo ai nomi degli autori Messer Osmano e Castra.
In realtà sembra di vedere uno schieramento locale che, quasi per questioni di tifo municipale, si impegna a dimostrare l'origine marchigiana del testo e un altro schieramento, più ampio ma meno motivato, che preferisce fidarsi della testimonianza di Dante.
Il problema è capire chi sia Messere Osmano: data la posizione del nome nel manoscritto non può essere altro che l'autore del testo, ma ai lettori più autorevoli, compreso il Camilli, suona improbabile che Dante si sia sbagliato nell'attribuire il componimento a un suo concittadino.
Alcuni, come D'Ovidio, hanno ipotizzato che Messer Osmano sia il nome o soprannome del protagonista (di origine osimana) che il Castra avrebbe voluto mettere in ridicolo per i modi di esprimersi e di comportarsi. 
Bisogna ammettere che, pur nella sua rozzezza, il personaggio maschile della canzone, vuoi per il fatto di raccontare in prima persona, vuoi per il successo della sua opera di seduzione, nonché per i complimenti incassati negli ultimi versi, non sembra davvero essere oggetto di derisione. Nemmeno  il comportamento della ragazza appare meno degno rispetto a quello di altre pastorelle o di altre fanciulle protagoniste dei contrasti del tempo. 
Si è pensato che Osmano sia, non l'autore, ma il dedicatario del componimento (il che postulerebbe un errore della mano ha compilato il corpus principale del manoscritto)
Altra ipotesi è che Castra e Messer Osmano siano la stessa persona: il secondo potrebbe essere un soprannome guadagnato operando a lungo come giudice nella Marca. Di pseudonimo parlano già Camilli e Monaco.
Purtroppo si è rivelato vano il tentativo di identificare Castra con personaggi noti. Il primo a provarci è stato A. Borgognoni (Studi d'erudizione e d'arte, II, Bologna 1878, pp.191-96), che aveva avanzato l'ipotesi che il Castra potesse essere l'orvietano messer Ormanno Monaldeschi, podestà di Firenze nel 1266, il che introduce un'altra ipotesi: che Osmano non voglia affatto essere una denominazione di origine, ma semplicemente un nome.

La canzone in molti punti è oscura. La lezione risulta controversa e dalla lettura non possibile dimostrare se essa sia originariamente marchigiana o sia stata scritta imitando la parlata; da Crocioni in avanti prevale la seconda idea. La patina toscana, comunque indubbia rispetto altri testi marchigiani rimasti nei luoghi d'origine, è attribuita al copista piuttosto che all'autore.
I versi riportati da Dante, che aveva conosciuto i testi siciliani attraverso una silloge simile a quella del nostro manoscritto, ma non attraverso il 3793 sembrano avere un patina più toscana ancora più marcata, ma sono solamente due, pochi per trarne delle conclusioni scientifiche.

Un'ultima possibilità: la Canzone del Castra potrebbe essere una parodia di quella del VAT. LAT. 3793? Che il Castra, un po' come fece Cenne della Chitarra, abbia ripreso e messo in burla un testo e che questa sia la versione  giunta alle orecchie di Dante?
Un'ipotesi temo indimostrabile, a cui fa cenno solo Crocioni, ma che avrebbe il merito di spiegare la discrepanza tra gli autori e quel primo verbo, che se nella versione manoscritta può significare "incontrai", in quella toscana non sembra proprio così.
Per altro Dante definiva la canzone del Castra "metricamente corretta e ben connessa […] " mentre la versione che ci è pervenuta alterna decasillabi a endecasillabi e non è costruita in modo da far corrispondere forma metrica e contenuti.

Questo è il testo (uno dei testi possibili) della Canzone. A destra c'è una traduzione nella quale ho cercato di restituire il ritmo e il senso e ho ottenuto una via di mezzo che non restituisce completamente né l'uno né l'altro. Come nella tradizione delle Città delle frottole.


Una fermana iscoppai da Cascioli:
cietto cietto s'agia in grand'aina
e cocino portava in pignoli
saimato di buona saina.
Disse: - A te dare' rossi trecioli
e operata cinta samartina
se comeco ti dai ne la caba.-
Se mi viva mai! E, boni scarponi
So ca i è mal fai che ci aba
la fantilla di Cencio Guidoni,
M’imbattei in una fermana di Cascioli,
svelta svelta se n’andava in gran fretta
cibi cotti recava in pentolini
conditi di buona sugna.
Le dissi: " Ti darei rossi nastrini
e una bella cintura sanmartina
se con me ti darai nella conca"
"Finch'io viva mai. Eh begli scarponi [i],
sarai ricco, ma non riuscirai ad avere
la servetta di Cencio Guidoni,

Ka donno meo me l'a commannato
ca là i' le vada a le rote
(in qual so!) co lo vitto feriato
a li scotitori, che non m'encote,
e con un truffo di vino misticato
e non mi scordassero le gote
e li scatoni per bene ministrare
la farfiata de lo bono farfione.
Leva 'nt'esso, non m'avicinare
ou tu semplo, milenso, mamone! -
che il mio padrone me l'ha comandato
che vada là alle Rote
(e so che sta là), col vitto giornaliero
per gli zappatori, che non abbia a sgridarmi,
e con un orcio di vino speziato
e che non mi scordassi le cucchiare
e le scodelle per ben ministrare
la minestra di buon farchione.
Levati di qui, non m'avvocinare
tu scempio, melenso, mammone!

Ed io tutto mi fui spaventato
per timiccio che non asatanai;
quando la fermana tansi 'n costato,
quella mi diede e disse: - Ai!
Ou tu creto, dolguto, crepato,
per lo volto di Dio mal lo fai
ché di me non puoi avere pur un cica,
se non mi prendi a noscella. -
E sciona! Non gire per la spica,
sì ti veio arlucare la masciella!
E tutto io mi spaventai
per paura che non s'assatanasse;
quando la fermana toccai nel costato
quella disse e mi colpì - Ahi!
tu brutto miscredente, dolente, crepato,
per il volto di Dio mal t'adoperi
ché di me non avrai una briciola
se non mi prendi in sposa
Eh scioccona! Non spigolare pretesti,
vedo bene quanto sei desiderosa![ii]

Fermana se mi t'aconsenchi,
duroti panari di profici
e morici per fare bianchi denchi:
ti lì à a tor te, se quisso no rdici!
Se Dio mi lasci passare a lo Clenchi,
giungerotti colori in tralici…
Ed io più non ti faccio robusto,
poi cotanto m'ài scuotata;
vienci ancoi, né sia Pierino Rusto,
ed adocchia non sia stimulata.-
Fermana, se m'acconsenti
ti darò panieri di profici
e di more che sbiancano i denti
li hai solo da prender, se non lo ridici!
Poi se Dio mi fa andare oltre il Chienti
aggiungerò per te stoffe in traliccio
E io più non ti faccio resistenza
poiché m'hai tanto scossa;
vieni oggi, che non ci sia Pierino Rusto,
e bada ch'io non sia disturbata. -
A l'abortito ne gio a l'aterato,
ch'era alvato senza follena;
lo battisaco trovai be' llavato,
e da capo mi pose la scena;
e tuto quanto fui consolato,
ca sopra mi gitò buona leina;
e con esso mi fui apatovito
e unqua me' non vi altrei.
Mai fai com'omo iscionito:
be' mi pare che tu mastro ei!-
Sul fare del buio me ne andai all'atterrato [iii]
Che senza fuliggine era imbiancato;
trovai il lenzuolo ben lavato,
e il guanciale (?) mi pose sotto il capo;
e tutto quanto mi fui  consolato.
che sopra mi gettò una buona coperta di  lana;
e con essa mi acconciai e posso dire
che mai ne vidi altra migliore.
Certo non fai com'uomo stordito,
ben mi pare che sei un maestro!




[i] È uno dei passaggi più controversi della canzone. Begli Scarponi è una metonimia, che la fermana impiega per apostrofare il poeta sottolineandone la ricchezza? Lo stesso Camilli, che l'aveva ipotizzato nel 1915 si persuade presto che a parlare sia ancora il cavaliere, ma a me la sua prima intuizione è sembrata sempre la più convincente. Lo stesso titolo di messere, di cui si fregia l'autore della canzone, Messer Osmano, almeno nelle Marche, era destinato a poche classi socialmente elevate: i cavalieri, i giurisperiti e almeno alcuni tra coloro che praticavano la medicina. Gli altri erano definiti […] maestri. Il corsivo è tratto dal libro di Giovanni Cherubini Gente del Medioevo.
[ii] E' stato ipotizzato anche che mascella che riluce possa essere un segno di magrezza e povertà; in questo caso il poeta si mostrerebbe sicuro che la fermana non possa resistere ai doni. Idea interessante, ma forse appartene più agli studiosi che al poeta. Sembra più probabile che in questo passaggio del testo il personaggio rinfacci all'altro/a un malcelato desiderio. 
[iii] Si tratta di una costruzione in terra cruda, termine attestato da XIII secolo vedi Mauro Saracco. L'atterrato nella Canzone del Castra ed in altre attestazioni coeve, in S. Anselmi, L. Gambi, G. Adani (a cura di), Insediamenti rurali in Emilia Romagna-Marche, 1990

I luoghi e personaggi

Cascioli (o Gagioli): il toponimo non è mai stato individuato. Con questo nome esisteva una Rocca Monte Cascioli  che il Comune di Firenze distrusse nel 1119, oltre un secolo prima rispetto alla nostra canzone. Spostare l'azione in Toscana comporterebbe molte correzioni e lascerebbe il problema di altri toponimi come il fiume Clenchi e della residua  marchigianità delle parole.
Crocioni scrive di aver passato in rassegna i nomi di tutti gli 80 castelli di Fermo citati negli Statuta, di aver consultato gli storici della città, mappe topografiche antiche e moderne, le tavole sinottiche del Ponti (1836) senza aver trovato niente che abbi "somiglianza alcuna col vocabolo "Cascioli" o "Gagioli" (Crocioni p.292).
La paziente ricerca su questo vocabolo, per quanto alla fine infruttuosa, ha studiato due ipotesi plausibili: se la prima, che identificava "Gagiòli" con Gagliole è stata fatta cadere, la seconda che riguarda un villaggio di Caloscio citato dal Ponti è stata invece lasciata aperta dal Crocioni.
La mia impressione che sia davvero uno sforzo vano cercare sulle mappe e sulle cronache un luogo compatibile con Cascioli. E' certo che il testo della canzone del Vat. Lat. 3793 sia in più parti difettoso e ho il sospetto che uno dei punti aggiustati malamente dal copista possa essere proprio il finale del primo verso. Per questioni di logica mi sembra strano l'inserimento di un toponimo dopo la parola fermana che già dà una collocazione spaziale sufficiente. Mi convince poco un'ulteriore determinazione di luogo a favore di un pubblico che difficilmente avrebbe potuto recepirla. Nelle mille ipotesi presenti nel saggio di Crocioni si indica la possibilità che "cascioli" sia l'esito della deformazione di un aggettivo che avrebbe dovuto, nel testo originale di Messer Osmano, indicare una qualità della ragazza. Qualcosa come "dolce come il cacio". Lo sospetto anche io e anche io, come Crocioni, non posso scriverlo e devo ammettere che, con le carte che abbiamo in mano, la cosa più probabile è che si tratti di un toponimo.

Le rote: toponimo diffusissimo, tuttavia c'è un candidato che merita maggiore credito: la profonda valle scavata dal Fosso delle Rote tra Massa Fermana, Montappone, Monte Vidon Corrado, Montegiorgio. Il fosso confluisce nell'Ete Morto. Il Fiume Chienti è nella valle immediatamente a nord. 

Clenchi > Chienti era ed è tuttora il confine tra la Diocesi di Macerata e la Marca di Fermo. Se il personaggio doveva andare a Osimo per poi ritornare dalla fermana con "colori in tralici" il Chienti si trova tra la città e le Rote.

Aterato L'atterrato è una costruzione in terra cruda. Se ne conservano diversi nel territorio di Massa Fermana. Ne rimane uno anche in contrada Fonte Corata lungo la ripida strada strada che risale dal Fosso delle Rote. Ringrazio per la foto il sito beniculturali.marche.it e, per la segnalazione, i blog Pedalare con lentezza e Salite delle Marche.

Cencio Guidoni antroponimo, ipocoristico di Lorenzo o Vincenzo. Viene citato dalla fantilla come una figura nota. Il nome richiama quello del vicino castello di Monte Vidon Corrado. La fantilla lo pronuncia ad alta voce come se si trattasse di una persona importante, ma l'impressione che non sarà facile rintracciare questo nome in qualche documento. 

Pierino Rusto, secondo il Crocioni, adombra i vari Pirrin personaggi fissi delle pastorelle (per esempio si veda L'autrier par la matinee entre un bois et un vergier, di Thibaut de Champagne, lo stimato Rex Navarre del DVE). Anche in questa canzone sembra il fidanzato o uno spasimante della fanciulla, e confermerebbe la consapevolezza letteraria dell'autore.

Kadonto e la fantilla: se ha ragione Crocioni Kadonto è un nome proprio di persona e sarebbe il marito della fermana. Crocioni ammette di non aver mai letto nelle carte fermane e fiastrensi questo nome, ma ne ha censiti molti altri simili e anche più strani, spesso unici. Se avesse ragione la fanciulla di Cencio Guidoni sarebbe non la fermana, ma un'altra ragazza alla quale avrebbe potuto rivolgere le sue attenzioni il poeta
Il manoscritto autorizza a leggere kadonto, kandonto, kadotto e kandotto, kandonno e kadonno, quindi le ipotesi possibili sono molteplici




Bibliografia e sviluppo del dibattito intorno alla canzone

La prima segnalazione delle Canzone è del 1846: Francesco Trucchi ne parla nella prefazione di 
Poesie Italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo; si tratta però solo di un passaggio molto sommario che serve all'autore per segnalare che nel Vat. Lat. 3793, che lui chiama Codice Vaticano dei Trovatori italiani che ci sono ancora varie poesie iniedite tra cui "un sonetto rammentato e citato da Dante nel libro della volgar eloquenza, in dialetto fermano (...) che comincia: Una fermana scopai da casciuoli". Se il passaggio del Trucchi fosse stato mmeno frettoloso (lo studioso ha ricordato a memoria la citazione dantesca senza preoccuparsi di copiare il verso iniziale del manoscritto né di controllare che non si trattava di un sonetto bensì di una canzone) forse la canzone del Castra sarebbe stata stampata prima. Invece si sono dovuti attendere quasi 25 anni.
Le prime edizioni diplomatiche della Canzone sono state pubblicate da Giusto Grion in Il Propugnatore, III (1870), pp. 89-92 e, successivamente, per la Società Italiana di Filologia, da D'Ancona -  D. Comparetti (1875),  dal Monaci nella Crestomazia e da Francesco Egidi, Il "Libro de varie romanze volgari", Roma, 1908, p.82 (la pagina della canzone è consultabile su archive.org | Libro de varie romanze volgari)
Amerindo Camilli, filologo e fonetista insigne, dal 1912 al 1959 consigliere dell'Associazione Internazionale di Fonetica e dell'Accademia della Crusca fu il primo a pubblicare una trascrizione completa della Canzone del Castra. Tornò più volte sulla lettera e sull'interpretazione della Canzone marchigiana del Castra in polemica più o meno esplicita con gli altri interpreti.

  • Amerindo Camilli, La canzone marchigiana del Castra in Rassegna bibliografica della letteratura italiana, marzo-giugno 1915, pp.86-101
  • Francesco Egidi, La canzone marchigiana del Castra in Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Marche (S. III, v. I, fasc. 1, pp. 178-187), 1916
  • Amerindo Camilli, Ancora intorno alla canzone marchigiana del Castra in Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Marche (S. VI, v. I, fasc. 1, pp. 245-246), 1918
  • Amerindo Camilli, La canzone marchigiana del "De vulgari eloquentia", in Giornale dantesco, XXV(1922), pp. 137-43;
  • Amerindo Camilli, Ancora intorno alla canzone marchigiana del “De vulgari eloquentia”, in Giornale dantesco, 1926.
  • Amerindo Camilli La Canzone Marchigiana del De Vulgari Eloquentia in Italica Vol. 15, No. 3 (Sep., 1938), pp. 103-105
  • Amerindo Camilli, La canzone marchigiana del De vulgari eloquentia, in Studi di filologia italiana, 1944, pp.: 79-96

Un grande lavoro di riepilogo e il contributo forse più significativo per l'interpretazione della Canzone furono quelli di Giovanni Crocioni, sulla cui base si confrontarono filologi importanti, ma forse meno appassionati rispetto agli autori locali. Un'edizione quasi definitiva è quella di Gianfranco Contini. L'articolo di Crocioni è consultabile presso l'emeroteca digitale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

  • Giovanni Crocioni, Una canzone marchigiana ricordata da Dante, in Giorn. stor. d. lett. ital., suppl., XIX-XXI (1922), pp. 265-362;
  • Carmelo Previtera, La poesia giocosa e l'umorismo, Milano 1939, pp. 134 s.; 
  • Gerolamo Lazzeri, in F. De Sanctis, St. della lett. ital. dai primi sec. agli albori del Trecento, Milano 1950, pp. 388 s.;
  • Vincenzo De Bartholomaeis, Origini della poesia drammatica italiana ,Torino 1956, pp. 33 e ss.;
  • Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, I, Milano-Napoli 1960, pp. 913-18.
Dopo Contini ci sono stati altri contributi interessanti, che non hanno intaccato la forma data alla Canzone in Poeti del Duecento, fino all'Antologia di Segre e Ossola uscita alla soglia del XXI secolo
  • Cesare Segre, Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura ital., in Lingua stile e società, Milano 1963, pp. 385 e ss.;
  • Bruno Panvini, Le poesie del DVE, Catania, 1968.
  • Sandro Baldoncini Dante, la Canzone del Castra e una postilla esegetica Italianistica in Rivista di letteratura italiana Vol. 13, No. 3 (SETTEMBRE/DICEMBRE 1984), pp. 317-328

  • C. Segre, C. Ossola, Antologia della poesia italiana. Duecento, Torino, Einaudi, 1999.

Da leggere
Innanzitutto si consiglia di leggere la copia digitale del manoscritto della Canzone del Castra consultabile gratuitamente nel sito della Digital Vatican Library: MSS Vat. Lat. 3793
  • Giovanni Cherubini, Gente del medioevo, Firenze, Le Lettere, 1995
  • Mauro Saracco. L'atterrato nella Canzone del Castra ed in altre attestazioni coeve, in S. Anselmi, L. Gambi, G. Adani (a cura di), Insediamenti rurali in Emilia Romagna-Marche, 1990
  • Mentre procedevo alla revisione finale del mio articolo ho notato che nella sua Crestomazia Ernesto Monaci aveva dato questa versione del passo dantesco: “Una ferina scopai da Cascioli.” Ho rapidamente controllato il codice Trivulziano 1088 e ho visto che riporta il verso “Una fermana scopai da cascoli”, lettura confermata nel Vaticano Reginense 1370, che ne è una copia.
    Diversa è la lezione del Codice B, conservato oggi a Tubinga: "una ferinaua scopai da cascoli"
    Forse varrebbe la pena di controllare anche il 580 di Grenoble. Online, ed è comunque una fonte affidabile, è possibile leggere "Il trattato " De vulgari eloquentia " di D.A.",di P. Rajna, del 1896. Dalle parole di Rajna a p. 90 la versione del codice G sarebbe: "una ferina|ua scopai da cascoli"
    Insomma nei manoscritti del DVE si trova scritto sempre "cascoli", la lettura "cascioli" del passo del DVE è in realtà frutto di un'interpretazione sulla base del 3793. Per quanto riguarda "fermana" i codici più autorevoli darebbero un incomprensibile "ferinaua", da tutti a partire da Grion considerato un errore, anzi uno "sfiguramento". Però è strano che lo stesso errore ci sia nei codici G e B e non in T, visto che  tutti gli stemmi del DVE considerano il Trivulziano e  il Grenoble originati dallo stesso antigrafo mentre il Berlinese è assegnato a un ramo diverso. 
Trivulziano 1088 c.5r

      ^) ferina va sccopai il Tr.: lezione da cui si diparti il solo Giul, per scrivere col Fontanini, Op.cit, p. 227, "una ferina vosco poi", colla persuasione nondimeno che fosse da leggere "femina" ch' egli credeva essere in V, mentre ci s'ha "fermaua". Di che sia sfiguramento il "ferinaua", è chiaro - lo disse primo il Grion nel Propugnatore ( t. IV, p^ 1^ p. 162)  dal cod. vaticano, tanto più che il vocabolo occorre in altri due luoghi della poesia (v. 23 e 31), e in entrambi è "fermana" ivi pure. E questi "fermana", e insieme il fermano della Tavola (V. la nota precedente), stanno a ben valida difesa della lezione dantesca, senza togliere a "formana" il diritto di interloquire, quanto al testo originario. A fatica invece mi sono rattenuto dal raddoppiare colla duplice testimonianza vaticana il p di "scopai". Lo scopare osceno del romanesco non ha qui che vedere. Si tratta manifestamente d'" incontrare"; ed "iscoppare" è stato trovato in questo senso in non so che testo spoletauo dal D. Nazzareno Angeletti, che si propone di illustrare ampiamente questa nostra poesia. Ma chi ci assicura che Dante non cadesse in un errore, in cui pili cose lo potevano indurre? ^) Assai piìi verosimile la le- zione della raccolta vaticana che quella dei nostri codici, e però delle edd. passate. Al Cascoli il Giul. mostra in nota di preferire Casoli, proposto dal Fontanini, località dell' Abruzzo Citeriore. Che s' abbia a fare con un nome proprio, fu creduto sempre, cominciando dal Tr., eccezion fatta per il Corb., che stampò il vocabolo con iniziale minuscola (Maffei C-), e dichiarò di non capir questo verso. Del gagioU della Tavola vaticana non può es- sere questione per noi, di fronte al- l'accordo delle altre voci nel cas-.






Il Trivulziano 1088 è un volume cartaceo della fine del XIV secolo. Forse di origine padovana, contiene assemblati insieme il De vulgari eloquentia di Dante e l’Ecerinis di Albertino Mussato. L’aspetto disadorno dell’esemplare cela uno dei tre codici più significativi della tradizione manoscritta del De vulgari eloquentia’. Riscoperto da Gian Giorgio Trissino poco prima del 1513, il Trivulziano 1088 fu infatti lo strumento fondamentale attraverso cui l’umanista diffuse la conoscenza del trattato dantesco a Firenze e a Roma. Nei secoli seguenti il codice giacque negletto nel convento veneziano di Santa Maria della Salute, finché ricomparve nel 1817 nella biblioteca di Gian Giacomo Trivulzio, da cui fu letto con appassionato interesse linguistico assieme all’amico Vincenzo Monti, 
prima di arrivare fino a noi attraverso le raccolte dell’illustre famiglia milanese.

Il codice Berlinese. Rimase ignoto agli studiosi fino al 1917, quando Ludwig Bertalot ne svelò Staatsbibliothek di Berlino.











Avantesto

Baldoncini ha una prosa scoppiettante. Se la prende - chissà perché poi?  - con il severo giudizio dantesco sull'idioma piceno, a suo dire immotivato. B. dimostra l'approssimazione di Dante contestando il Chignanamente, e contestando l'incapacità di Dante anche solo di individuare i confini precisi del Piceno.
Preterizione "non tratterò dell'inutile questione attributiva" - Fin troppo compiaciuto delle parti pruriginose del componimento.
Parla di excuppare nel senso intermedio di "togliere la scorza"
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L'archivio storico di Fermo fu organizzato, nella struttura che ha conservato fino ad oggi, tra il 1623 e il 1624 da Michele Hubart, un paleografo di Liegi che fu chiamato a Fermo da Roma per riordinare le scritture della città, effettuò la ricognizione di tutti i documenti pergamenacei e di un certo numero di documenti cartacei. Li ordinò per luoghi, li numerò progressivamente e, dando di ciascuno il relativo regesto in lingua latina, li catalogò in un repertorio manoscritto, terminato di compilare nel 1624. Risultò un complesso di 2.364 documenti dal 1169 - e in copia dal 977 - al 1621, che egli chiamò archivium vetus civitatis Firmi.
In luoghifermani.it/?p=8726 Carlo Tomassini ha pubblicato l' INDICE DEI NOMI PROPRI NELLE PERGAMENE ELENCATE DA MICHELE HUBART CONSERVATE PRESSO L’ARCHIVIO DI STATO DI FERMO - studio di Vesprini Albino. Non risultano nomi che possano ricondursi a Cencio Guidoni o Cascioli. in http://www.mgh-bibliothek.de/dokumente/b/b071348.pdf lista di toponimi tratti dal Codice Bavaro

IL LAUDARIO DI URBINO
Il Crocioni trae dalle laude di questo laudario le prove della diffusione della poesia provenzale a livello popolare nella Marca
https://archive.org/stream/StudjRomanziVol12/Studj_romanzi_Vol_12_djvu.txt




[1] Il passo dantesco è: "Post hos (Romanos) incolas Anconitane Marchie decerpamus, qui, Chignamente scate sciate? locuntur, cum quibus et Spoletanos abicimus. Nec preterundum est quod in improperium istarum trium gentium cantiones quam plure invente sunt; inter quas unam vidimus recte et perfecte ligatam, quam quidam florentinus nomine Castra composuerat. Incipiebat etenim: Una fermana scopai da Cascioli, Cita Cita s'en gia 'n grande aina".





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