Quando mettere l’accento sul ché Le relative improprie sono un abominio della lingua? (da scrivo.me)
di Arcangelo Auletta
da http://www.scrivo.me/2014/03/24/accento-del-che/
da http://www.scrivo.me/2014/03/24/accento-del-che/
Prendiamo la parola che: la usiamo ovunque.
Riempiamo i periodi di talmente tante relative che poi dimentichiamo a che cosa erano relative le proposizioni che volevamo usare e che ci servivano per dire quello che volevamo dire in relazione a ciò che era il nostro pensiero e che era l’argomento della principale: capito
Fatta eccezione per i simpatici (mamma-che-simpatia) lazzi funambolici, sarebbe buon costume evitare di usare tutti quei che. Quasi sempre è possibile metterci un due punti o comunque ragionarci quel tanto che basta per risolvere il periodo diversamente.
Altra soluzione possibile è iniziare a fare un po’ di distinzione nel mare magnum di che utilizzati. Infatti non tutti i che hanno una funzione esattamente relativa, cioè non tutti introducono una proposizione che circoscrive o esplica ciò che è stato detto nella principale. Molti di quei che introducono relative dette improprie, cioè con un valore che spazia dal causale al temporale etc.
Aggiungerò che le relative improprie sono un abominio della lingua, dei Frankenstein cui è stata donata la vita contro ogni legge di natura. Basterà riflettere un minuto per sciogliere una relativa impropria in una proposizione degna dell’homo sapiens sapiens. Esempio:
Aggiungerò che le relative improprie sono un abominio della lingua, dei Frankenstein cui è stata donata la vita contro ogni legge di natura. Basterà riflettere un minuto per sciogliere una relativa impropria in una proposizione degna dell’homo sapiens sapiens. Esempio:
Quella notte che sono andato al parco, mi sono divertito.
Quella notte, quando sono andato al parco, mi sono divertito.
Se qualcuno mi parlasse nel primo modo in
una conversazione, penserei che quella notte al parco si fosse divertito a
seviziare gli scoiattoli. Nel secondo caso penserei che quella notte al parco
avesse avuto luogo un’indimenticabile soirée di musica nell’ambito della
rassegna “Soprattutto Mozart” …o che avesse seviziato degli scoiattoli,
d’accordo, ma non ne avrei la certezza come nel primo caso.
Esistono, però, due tipi di relative
improprie per le quali l’utilizzo del che è tollerabile ma con l’accortezza di
usare l’accento acuto sulla e, ergo ché. La motivazione è questa: nel caso di
una relativa impropria con valore causale o finale, il ché costituisce una
contrazione di poiché, perché, affinché etc.
Ora: sia che si scriva “Sono contento che
andiamo al parco” sia che si scriva “Sono contento ché andiamo al parco” ciò
non limiterà la comprensione di quanto stiamo dicendo. Inoltre mettere quell'accento è qualcosa che non fa nessuno e nessuno vi darà dell’ignorante
nel caso non lo facciate. Eppure quando mi capita di incontrare un testo con
quel vezzoso ché, provo un’immediata empatia per l’autore, una sorta di saluto
segreto di un’aurea confraternita di squinternati.
Immaginate di essere uno di quei tipi
mascelloni e fighissimi delle pubblicità dei dopobarba; uno di quelli che
contraggono il bicipite mentre spruzzano deodorante sotto l’ascella o che sono
“pronti a ripartire” dopo una nottata passata in compagnia della tipa
fighissima della pubblicità dei collant. Ora creiamo una storia al nostro tipo
fighissimo (d’ora in poi TF).
TF è un tipo fighissimo che ha un lavoro aziendale figo in giacca e cravatta. TF di notte fa
il dj di musica elettronica figa ma il giorno dopo è sempre “pronto a
ripartire”. Dopo una serata tunz tunz fighissima, la mattina seguente ha
un’importantissima riunione con il cda dell’azienda, durante la quale deve
sorridere e gesticolare davanti a un istogramma. Nonostante la notte passata a
selezionare ricercata musica elettronica
scandinava per
un’urlante folla di tipe della pubblicità dei collant, ha un aspetto
impeccabile: ben rasato, un leggerissimo gessato d’ordinanza, scarpa stringata
lucida, cravatta sottile con elegante nodo prince albert. Mentre TF gesticola (inutile
dirlo) in modo figo, un movimento del braccio scopre un orripilante orologio digitale da
polso. I membri del
cda, che lo credevano un tipo fighissimo, sono sconcertati da quella vista e
sono visibilmente provati. Qualcuno vomita la colazione.
TF sa bene cosa li ha turbati ma non gli
importa. Era sempre stato un tipo fighissimo, anche da bambino, quando suo
padre gli aveva regalato un orologio digitale da polso e gli orologi digitali
da polso erano la promessa di un futuro più che prossimo di fulgore
tecnologico. Promessa mantenuta al punto che l’orologio digitale da polso è
diventato fuori moda nel giro di pochi mesi. TF aveva continuato a indossarlo e
a conservarlo come un tesoro, il regalo più bello di suo padre. Col tempo aveva
cominciato ad amare ciò che quell’oggetto rappresentava. Vedeva nell’orologio
digitale l’ingenuità di una generazione e la tenerezza dei sogni. Poi aveva
letto Guida
galattica per autostoppisti e l’idea che gli uomini fossero
considerati talmente primitive da credere “ancora che gli orologi da polso
digitali siano un’ottima invenzione”, aveva alimentato la sua autoironia. Gli
piaceva l’idea di sentirsi un pioniere, un primitivo, sapendo, al contempo, che
di strada ne aveva fatta. Componeva musica elettronica utilizzando i primi
computer, i syntetyzer, i sequencer. Aveva iniziato a suonare nei club, intanto
si era laureato in economia, aveva trovato un lavoro etc.
Ecco cosa vuol dire per TF quell’orologio
digitale da polso. È un vezzo, un piccolo orgoglio, uno status symbol, un modo
per ricordare a sé stesso chi è davvero, le scelte che ha fatto; per ricordare
suo padre.
Scegliere di scrivere ché è un vezzo, un
distintivo, un modo per mostrarsi nel modo di scrivere. Vuol dire scegliere di
saper distinguere una relativa da una causale, vuol dire interrogarsi su ciò
che si fa e su come lo si fa. È una piccola presa di coscienza.
TF, in fondo, non è altro che una
figurina, l’uomo della pubblicità. Noi non siamo molto diversi da TF: a primo
acchito siamo delle figurine, i tizi delle pubblicità. Le differenze sono nei
mondi che ci portiamo dentro. Molti di noi decidono che questi mondi siano
troppo scabrosi o troppo intimi per essere mostrati. Altri, pochi, decidono che
non gli importa.
Io scrivo ché: molti se ne fregano (e
fanno bene), molti mi prendono per cretino (e fanno ancora meglio), molti mi
credono ignorante (non sapendo di esserlo per primi) e qualcuno sorride e
scrive ché.
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